Quella dedicata ai dischi del 2020
Esattamente quello che dice il titolo qui sopra (no, non è una classifica. Quello di Dua Lipa non è il mio disco preferito dell'anno)
Non so se ve ne siete accorti, ma il 2020 è stato - ed è ancora - un anno strano, dove sono successe delle cose incredibili e destinate a segnare per sempre le sorti dell’umanità. Io, per esempio, nel 2020 ho comprato un disco di Taylor Swift - questo - e poi ne ho comprato anche un altro. E il bello è che non è che siano due capolavori, anzi. Si tratta di due dischi caruccetti, ma che in qualche modo dicono tantissimo dei discorsi che si fanno sul pop in questo periodo particolare dove tutto, soprattutto le cose di grande/grandissimo successo, diventano vittime di sovraletture che vanno ben oltre le loro reali qualità.
Tutto questo per dirvi che se penso a un disco squisitamente pop, nel senso proprio di commerciale, uscito nel 2020 e che forse avrò ancora voglia di ascoltare nel 2021 non posso non partire da Dua Lipa e dal suo “Future Nostalgia”, un disco meravigliosamente vacuo. Uno “stacca cervello/muovi le chiappe” perfetto e a suo modo divertente. E poi che altro dire se non: “Questo video!”
Rimanendo, più o meno (più meno che più più), nello stesso ambito non posso non citare l’album della quarantena di Charlie XCX, che è interessante per come è ancorato alla contemporaneità ma che prova a spingere ancora un pochino verso un idea di mainstream-futuro possibile. Le stesse ragioni che mi hanno fatto andare in fissa anche con l’ultimo album di The Weekend, “After Hours”. Era dai tempi della “trilogia” che il buon Abel non mi convinceva così tanto e se penso a quanto ho ascoltato Hardest to Love all’inizio del 2020 mi sembrano passati già quasi cinque anni.
Però ho l’immagine precisa dell’inizio della quarantena, io che lavo i piatti e questa canzone che va che boh, non è proprio questo grande aneddoto ma ci stava.
Ah, poi è uscito pure un disco di Miley. Oh Miley! (Non l’ho ascoltato in realtà, ma mi piaceva citarla). E le Haim. Io ho un debole per le Haim, non ci posso fare un cazzo, non so perché siano considerate da molti l’emblema della musica fake. È pop fatto bene e stiloso. E oh, a me piaciucchia “Tango in the Night” dei Fleetwood Mac.
Il 2020 è stato l’anno in cui tanta gente che mi piace più o meno sempre ha pubblicato album che ho amato alla follia. I loro migliori da un sacco di tempo.
Come Bill Callahan che ha fatto il disco d’oro (nel senso che si chiama proprio “Gold Record”) e che forse inizia con l’incipit più bello che questo 2020 poteva regalarci: una canzone che si chiama: “Piccioni” e che viene introdotta dalla voce di Bill che prima ancora che parta la prima nota si annuncia dicendo: “Hello, I’m Johnny Cash!”.
Sono tornati anche i Flaming Lips con “American Head”, una specie di concept sulla fine del sogno americano che ha come detonatore pretestuoso la morte di Tom Petty e che infatti rappresenta il capitolo più orgogliosamente e maestosamente classic rock della band di Oklahoma City. Non vi preoccupate, però, c’è comunque sempre un sacco di droga. A proposito di “sogno americano terminato nel guano”, non si può non citare Bob Mould. “Blue Hearts” è politico, incazzato e suonato veloce come praticamente sempre. Ma con più “qui e ora” rispetto al recente passato.
Restando in un ambito simile (eroi indie col chitarrone), devo ammettere che mi sono approcciato a “By the Fire” di Thurston Moore abbastanza scoglionato e invece è uno dei suoi dischi solisti migliori. Ovviamente fa sempre quella cosa lì, ma quella cosa lì Thurston Moore la fa meglio di tutti (anche quando si auto-plagia). Ancora più riuscito il disco del suo compare Lee Ranaldo insieme a Raül Refree, più ostico di Thurston ma pure più avventuroso.
A “Microphones in 2020” ho dedicato un intero numero di questa newsletterina.
Un disco che è sia un romanzo autobiografico, che un’opera di video-arte che un libro fotografico incredibile. Una traccia unica dalla durata di 44 minuti e che racconta una vita. Mi è piaciuto moltissimo anche “Suddenly”, di Caribou, che ho trovato intimo, personale, privato e dolce ma con un paio di pezzi killer che farebbero muovere il culo a chiunque. Bello, anche se ho impiegato un po’ a lasciarmi coinvolgere, anche “Shore” dei Fleet Foxes che in realtà utilizzo come trucco per far passare sotto traccia il fatto che non ho mai avuto così poca voglia e interesse verso un disco nuovo di Sufjan Stevens e che di Fiona Apple capisco l’ambizione e tutto ma alla fine mi ha lasciato poco. Ma che ci volete fare, io sono un tizio semplice e infatti ho consumato l’ultimo Strokes che, capisco, non è questo miracolo ma che è stata la cosa di cui ho avuto bisogno nel momento in cui ne avevo bisogno. Ho apprezzato tanto anche l’album clubbarolo di Róisín Murphy e l’idea di pubblicare i pezzi anche in versione estesa, pensati proprio per i dj set (ah, te li ricordi i dj set?). Dei due Autechre del 2020 ho preferito “Sign” più melodico, sospeso, e forse meno scontato di “Plus” (che è comunque molto fico) e ovviamente mi sono intrippato con la teoria secondo cui i due dischi andrebbero suonati sovrapposti (hanno la stessa identica durata) e, ascoltando questo mix, effettivamente potrebbe non essere una cazzata.
Per saltare di palo in frasca e tornare ai vecchi leoni con le guitarre, ci tenevo a dirvi che i Dream Syndicate hanno fatto un disco incredibile. Se vi piacciono i trip, la psichedelia, i viaggi interstellari, secondo me dovete dargli una chance.
Quando è uscito, il quarto dei Run The Jewels è subito entrato a gamba tesa sul 2020.
Una mina assurda, una manata in faccia. Col tempo l’entusiasmo si è un po’ affievolito, ma devo dire che quando - finalmente - mi è arrivato a casa il vinile e ho ricominciato ad ascoltarlo con cattiveria è risalito tutto.
L’omicidio di George Floyd, a cui in qualche modo l’uscita di “RTJ4” è stata legata, le rivolte che lo hanno seguito e la ritrovata esplosione del movimento Black Lives Matter hanno di certo rappresentato uno spartiacque importante dell’anno ancora in corso. Tutto questo ha riverberato anche nella musica che è tornata in maniera importante a occuparsi delle questioni sociali recuperando una dimensione politica e non solo devota alla narrazione del quotidiano. A cogliere lo zeitgeist sono stati sicuramente i due album dei Sault che, come nel 2019, sono usciti con due pubblicazioni gemelle - “Untitled (Black Is)” e “Untitled (Rise)” - che sono due veri e propri saggi musicali dedicati alla cultura nera e alla storia della musica afrodiscendente. Un discorso simile si può fare anche per “Black Nationalist Sonic Weaponry” di Speaker Music, il progetto di DeForrest Brown Jr (giornalista, producer, attivista politico e fautore della campagna “Make Techno Black Again”) composto proprio nelle ore seguenti l’uccisione di Floyd. Una mattonata di pura techno vecchia scuola, potentissima e soulful. Altro disco black incredibile è quello di Mourning {a} BLKstar collettivo di Washington DC che per certi versi può essere considerato gemello dei Sault e che mischia blues, soul, elettronica e qualche influenza jazz di nuova generazione. Genere in cui hanno spiccato anche “Who Sent You?” di Irreversible Entanglements, forse il disco “jazz qualcosa”dell’anno, il solito Shabaka tornato con gli Ancestors (il suo progetto che preferisco), “Suite for Max Brown” di Jeff Parker (sì, quello dei Tortoise) che ha anche prodotto uno dei dischi che ho più ascoltato quest’anno: “The Weather Up There” di Jeremy Cunningham.
Batterista che gli appassionati di indie primi anni 2000 ricorderanno come membro della live band di Why?, ha dedicato quest’album al fratello rimasto vittima di omicidio durante una rapina in casa. Un concept che è quasi un audio-documentario, con frammenti sonori presi dall’infanzia dei protagonisti e un sound che rimanda proprio alla Chicago dei Tortoise (il disco è stato registrato da John McEntire nel suo studio).
Menzione d’onore per “We’re New Again” l’album in cui Makaya McCraven ha re-immaginato l’ultimo disco in studio di Gil Scott-Heron e anche per “Mama, You Can Bet!”di Jyoti aka Georgia Anne Muldrow.
Per quanto riguarda il rap, partiamo da “Big Conspiracy” di J Hus, londinese (classe 1996) e che in qualche modo si accoppia molto bene coi dischi di cui abbiamo parlato subito sopra. Gli ultimi due anni sono stati abbastanza incredibili per l’hip hop made in UK, anche e soprattutto al di fuori della scena grime da cui comunque J Hus discende. In America anno d’oro per la cricca che gira intorno alla Griselda Records (aka la label che ha riportato il boom bap nel presente) con “From King to a God” di Conway the Machine, “Burden of Proof” di quel tamarro di Benny the Butcher e i tre (cazzo, tre!) album pubblicati da Westside Gunn nel 2020. Uno più bello dell’altro. Sempre buone le fettuccine “Alfredo” cucinate da Freddie Gibbs insieme a The Alchemist e particolarmente gustoso anche l’album postumo di Mac Miller che non c’entra un cazzo con la roba di cui ho parlato prima, ma volevo un po’ spezzare questa sfilza di hip hop classicone. Anche perché poi vi volevo dare una mazzata con Busta Rhymes: quando mi hanno detto di ascoltarmi il disco di Busta mi sono fatto una risata, e invece “Extinction Level Event 2:The Wrath Of God” è una bomba vera. Feat di livello incredibile (da Rakim e Pete Rock passando per Kendrick Lamar, Mariah Carey, Q-Tip, Anderson.Paak, Eminem e molti altri), sound super scuro e un’aria da fine del mondo imminente perfetta per marchiare a fuoco questo maledetto 2020.
Scurissimo, apocalittico e cattivo è anche uno dei miei dischi preferiti di tutto questo 2020: “God Has Nothing To Do With This Leave Him Out Of It” di Backxwash e cioè Ashanti Mutinta rapper e produttrice canadese ma di origine zambiana che ha una visione musicale molto ricca e personale, si è beccata da poco pure il Polaris Prize e il disco di cui parlo è addirittura in free-download. Nel 2020 è finalmente anche uscito l’attesissimo disco di Jay Electronica che di base è il miglior disco di Jay-Z non fatto da Jay-Z (Jay Electronica aveva anche pubblicato il suo famigerato album perduto del 2012, “Act II: The Patents Of Nobility” ma è stato rimosso da tutte le piattaforme).
Visto che ci sono: faccio un saltello in Italia e vi dico che il disco di Speranza è una bomba e che Dargen ha fatto un disco bello anche se ormai non ci speravamo più.
Se vi piace la musica elettronica (lo so, messa così vuol dire tutto e un cazzo di niente), vi consiglio “Workaround” di Beatrice Dillon: un disco che spazia tra mille cose diverse e unisce ritmiche caraibiche, suoni digitali, micro campionamenti e anche un piglio orgogliosamente free. Decisamente più regolare, ma altrettanto imperdibile, “What We Drew” di Yaeji è un viaggione abbastanza denso.
Controindicazione: vi farà un sacco dondolare la testa.
A proposito di viaggi: non ho tanto ben capito il concept dietro l’ultimo “Magic Oneohtrix Point Never”, concepito come un saltellare tra le varie stazioni radio durante un lungo viaggio in macchina passato alla guida (per questo il disco si muove su coordinate molto varie e paracule il giusto), ma io per quell’uomo lì ho un debole e il disco alla fine lo sto ascoltando un casino e devo dire che mi piace.
Il 2020 è l’anno in cui mi hanno iscritto a un gruppo facebook di nostalgici fan del Maffia (cosa che posso dire di essere stato a distanza) e la roba mi ha fatto prendere talmente bene che “The Edge of Everything” di Krust mi fa scommettere in un imminente ritorno del drum’n’bass (se ne è mai andato?).
Nel corso delle ultime settimane sono andato abbastanza in fissa per “Help” di Duval Timothy, musicista londinese che durante il lockdown ha composto e registrato questo disco tutto dedicato al tema della salute mentale in un momento delicato come quello della pandemia. Se siete lettori abituali di questa newsletter saprete già che è un tema che mi sta molto a cuore e questo disco è un vero e proprio balsamo per l’anima.
Discorso simile anche per “Dead Screen Scrolls” di Clarence Clarity, album che ho comprato durante il primo “no fee day” di Bandcamp e che è stato pensato proprio come una colonna sonora/diario di giorni passati in isolamento a fissare schermi.
Io ho un debole per Clarity (che quest’anno ha fatto molto parlare di se anche per la produzione di Rina Sawayama), ma se vi piace la musica ambient direi che potrebbe interessare anche a voi. Disco bizzarro ma di grande intrattenimento, “To Feel Embraced” di Sparkle Division. La band di William Basinski e Preston Wendel, tra jazz, lunghe e tutte quelle altre cose lì che di solito fa Basinski.
”KiCk I” di Arca mi ha tenuto compagnia per praticamente tutta l’estate, poi l’ho un po’ abbandonato ma lo sto riascoltando adesso, mentre scrivo, e devo dire che ci sta tutto. Quest’anno ho un po’ tralasciato la world music, ma quando ho voglia di fare un po’ di pace col demonio sparo a tutto volume “Duma” dei Duma, duo ugandese che mischia metal e techno. Io ne sono super affascinato e ho pure comprato il vinile.
Il 2020 è anche l’anno in cui - con estremo ritardo - sono salito anche io sul treno dei Khruangbin e ho amato “Mordecai” ma anche l’ep con Leon Bridges e tutto quello che è arrivato prima. Se vi piace il funk, la psichedelia, e pure le colonne sonore dei film porno degli anni ‘70, dovreste amarli anche voi. Più frangettone per tutti.
E se mi seguite un po’, probabilmente saprete già che sono uno dei pochi a non gridare al miracolo per la nuova scena post-punk britannica.
Insomma dato che pare che il rinascimento dell’indie rock debba passare proprio per quella roba, e io faccio un po’ fatica a salire su un carro che in teoria dovrebbe essere proprio il mio, volevo segnalarvi che non si vive di soli Fountains DC e Idles (che comunque mi piaciucchiano un po’ anche se fanno sempre lo stesso disco e sempre meno divertente) e se vi piacciono le chitarre per me i dischi da ascoltare sono, su tutti, “Sideways to New Italy” dei Rolling Blackout Coastal Fever, band con il nome più del cazzo della storia della musica, ma pure con degli intrecci di chitarra che ciao proprio e delle melodie killer (in questo disco è come se i New Order fossero stati una band jingle-jangle), carini pure i Porridge Radio e “Football Money” dei Kiwi-jr che sono perfetti per placare la vostra nostalgia per i Modern Lovers (di sicuro con me hanno funzionato). Con “Punisher”, Phoebe Bridgers è diventata una star e io devo ammettere che sono salito sul carro con la rapidità e la passione che non ho mai avuto per Courtney Barnett. Per ovvie ragioni, la associo al debutto da solista con nome proprio di Matt Berninger dei National che con “Serpentine Prison” ha fatto uscire quello che di fatto è un disco dei National un po’ più acustico, senza i National e con canzoni più belle dell’ultimo album dei National (che ormai sono diventati una specie di Coldplay per intellettuali). Pensavo che Yves Tumor avesse rotto il cazzo con la sua smania di fare uscire musica ogni sei mesi, e invece alla fine mi ha fregato ancora.
”Heaven to a Tortured Mind” è quello che avrei voluto da Blood Orange se non si fosse messo a fare dischi noiosetti: un pop funk molto sexy con bei pezzi e ancora qualche elemento di imprevedibilità . Che è più o meno la cosa che si è messo a fare - benissimo - Perfume Genius, ma senza il funk e con più melodramma ma pure tante invenzioni.
Il 2020 è stato anche un anno di grandi vecchissimi che hanno fatto bei dischi.
Bob Dylan soprattutto, ma anche Bruce Springsteen e Neil Young con un disco che è vecchio davvero ma che è però uscito solo quest’anno.
Ma la verità è che stiamo tutti aspettando “McCartney III” che esce fra una settimana e magari si mette in tasca tutti. Chi lo sa!
Intanto vi ringrazio se siete arrivati qui in fondo, a questo giro non vi metto playlist dato che vi ho messo un sacco di link a Bandcamp e quindi un botto di musica da ascoltare. Sono certo di avere dimenticato delle cose, ma come sempre questi recap di fine anno vanno presi per quello che sono - un gioco - e di base solo fra qualche mese capiremo veramente cosa rimarrà della musica del primo anno degli anni venti.
Piccolo disclaimer per quelli che si lamenteranno e che diranno che ho messo troppa roba: fuori è pieno di musica bella, basta avere voglia di ascoltarla. E io ho voglia.
Soprattutto in un anno in cui sono stato quasi sempre murato in casa a non fare altro.
Alla prossima, ciao persone!
Fatemi sapere cosa ne pensate.