Un popolo di santi, cantanti, poeti, navigatori e rosiconi
la settimana di Sanremo è finita, ricomincia la musica
In Italia, una volta all’anno, tutti gli anni, da settantaquattro anni, per una settimana intera si parla solo di musica e lo si fa per quasi ventiquattr’ore filate e su tutti i media disponibili. Dovrebbe essere una cosa bella, e dovrei esserne felice, ma in realtà non è così: il Festival di Sanremo, da più o meno sempre, porta in dote un approccio tossico alla materia musicale che riguarda proprio il modo in cui la musica si vive, si ascolta, e si racconta e che finisce poi per inquinare tutti quei periodi dell’anno che non sono, appunto, la sola Settimana Santa. Questo succede in po’ perché si tratta di una competizione - e nella natura stessa della competizione è per forza presente un po’ di tossicità - e un po’ perché da qualche anno a questa parte, complice anche il periodo buio del Covid, quella del Festival sembra essere diventata l’unica vetrina che ancora riesce ad avere un peso e influenzare il mercato per i mesi a venire.
Parliamoci chiaro, io non sputo nel piatto dove ho mangiato: qualche Sanremo l’ho fatto, e in minuscola parte credo di essere stato uno dei tanti attori di un cambiamento per cui la mia generazione aveva lottato moltissimo. Fino a una decina di anni fa, il Festival della canzone italiana era appannaggio di una piccolissima fetta della grande torta della musica italiana. Quella della musica baciata dalla popolarità televisiva e, appunto, sanremese e che tranne per qualche eccezione - di solito una per edizione - tagliava completamente fuori tutte quelle realtà che la musica la rappresentavano nei club, in alcuni casi nelle radio, e su Internet e spesso anche ottenendo numeri molto significativi.
Per anni abbiamo scritto, dibattuto e rivendicato il nostro diritto a esserci, fino al punto in cui quella cosa è effettivamente successa: Sanremo è diventato uno spaccato di tutto l’arco costituzionale della musica italiana, un luogo dove anche la musica “dei giovani” trova il suo spazio. Una piccola rivoluzione che nel frattempo però è già diventata a sua volta un cliché, e via via le scelte coraggiose hanno ceduto terreno a quelle dettate dalle logiche di mercato. Non più il Festival della canzone italiana, ma il Festival di quello che funziona e che deve funzionare sempre di più. La televisione si è ripresa un potere che la storia le aveva parzialmente sfilato come si sfila una sedia da sotto un sedere piuttosto ingombrante. Quelle che era diventata una cosa tra le tante è finita di nuovo a dettare legge e Sanremo è di fatto l’unica cosa che “sposta”. E il problema non è tanto la forza e la popolarità di Sanremo ma quanto la mancanza di altri spazi analoghi e altrettanto significativi. La stessa cosa che è successa e sta succedendo col mondo dei concerti dal vivo, dove ormai sembrano funzionare e godere di grandissima salute solo i grandissimi eventi, mentre tutto il resto della filiera annaspa per riuscire a mettere insieme il pranzo della domenica.
Fare parte o il non fare parte di certi giri sembra essere diventata l’unica cosa che conta. Come dimostrano, ad esempio, i numeri sciorinati come un vessillo da ostentare in ogni occasione. Non c’è stato un progetto musicale in gara durante l’ultimo Sanremo che non sia stato presentato con l’elenco dei fantastiliardi di streaming accumulati e dei dischi di oro e platino certificati, che se prima erano un trucco per far passare al pubblico di Rai Uno una classe di potenziali sconosciuti di successo, ora sono davvero diventati l’unica cosa che conta. Una cultura dei numeri che di fatto sta stritolando un mercato che nel frattempo sta cannibalizzando se stesso, come se fosse il millepiedi umano dei film horror. I numeri alla portata di tutti - lo ripeto - hanno ucciso il coraggio. E lo hanno fatto non solo a Sanremo ma anche nelle piattaforme di streaming e nel modo in cui la critica si approccia alla musica. Si parla quasi sempre e solo di risultati, ovunque. E non siamo in pochi a pensare che questa forma di trasparenza sia in realtà diventato uno strumento di potere. Senza i numeri visibili da tutti - se non dagli addetti ai lavori - cambierebbe quasi tutto: i curatori delle playlist potrebbero tornare a scommettere, la critica non specializzata potrebbe ricominciare a parlare di dischi belli a prescindere dal loro successo, la canzone d’autore potrebbe tornare a Sanremo a fare la canzone d’autore, così come i rapper potrebbero calcare quel palco facendo loro stessi e non portando canzoni scritte da sette autori che sono uguali a altre dieci canzoni scritte dagli stessi sette autori. Le canzoni - forse - tornerebbero a essere canzoni e gli artisti tornerebbero a essere artisti, e non delle aziende su cui disseminare quote autoriali come fossero pacchetti azionari. Verrebbe - sempre forse - finalmente a mancare l’idea che esista una formula per il successo e che vede le canzoni, ciclicamente, tutte scritte nello stesso modo e con i medesimi ganci testuali e musicali. L’idea che per funzionare tu debba avere nel tuo team l’autore che già ha scritto decine di successi e il produttore che è tale solo perché ha già firmato diverse hit. Non esiste praticamente più “la ricerca del sound”, mentre si pensa che andare da tal dei tali e non da un altro sia un modo per scalare più posizioni e più celermente.
Tutto questo nella settimana di Sanremo diventa l’unico modo in cui ci si approccia e si racconta la musica: improvvisamente è come se non esistesse altro oltre quello.
Diventa quindi fondamentale la caccia alle stonature e la ricerca esclusiva e continua di plagi. Basta letteralmente che una tizia con un po’ di seguito su Tik Tok dica che una canzone è uguale a un’altra, che subito quella cosa diventa reale e finisce per influenzare l’opinione pubblica.
E così il Festival di Sanremo cambia per restare sempre uguale, con gli stessi meccanismi di sempre che si ripetono identici a loro stessi: la polemica, la ricerca del capro-espiatorio, lo storytelling forsennato e la guerra tra le fandom.
Come la possibile vittoria di Geolier che diventa, sfuggendo a ogni logica, quasi un fatto identitario e di riscatto per la città di Napoli, nello stesso modo in cui era sbagliata l’idea che Angelina Mango dovesse arrivare prima nella serata delle cover semplicemente per il fatto che stava portando sul palco un omaggio al padre scomparso. Così come è ridicola e strumentale la polemica - populista proprio come i numeri visibili degli streaming - sul televoto che avrebbe premiato a furor di popolo Geolier e che invece ha pesato quanto il giudizio della Sala Stampa e quello delle radio. Polemica che porterà all’ennesimo cambio di regolamento e che ancora una volta punta a fare emergere il concetto che siano i numeri a valere più di ogni altra cosa (e anche che ci siamo dimenticati tutti di quell’epoca buia in cui i Sanremo li vincevano Giò Di Tonno, Scanu e Marco Carta proprio grazie al voto popolare).
Il Festival di Sanremo, per chi ci va, dovrebbe essere solo un passaggio.
Un mezzo e non il fine. Uno strumento da sfruttare per ottenere visibilità su un progetto che dovrebbe avere il suo senso anche e soprattutto senza il Festival.
Non dovrebbe essere un punto d’arrivo e forse neanche un punto di partenza.
In discografia si parla tanto del Festival come di un “campionato”, con quello dei tormentoni estivi che di fatto rappresenta “l’altro campionato”. Un campionato che genera “doping” che poi influisce sugli streaming, sui tour e tutto il resto.
La narrazione tossica di cui parlavo, appunto, passa anche attraverso le scelte lessicali che ci fanno dimenticare che la discografia è un’industria, ma la musica è espressione, arte, e che come tale ha il compito di generare anche cultura, oltre al profitto.
Altrimenti finiamo per dimenticarci il senso di tutto e facciamo la fine di quelli che di fronte a un artista che usa la propria voce per dire quello che pensa si ritrovano a difendere comunicati come quello, indifendibile, di Roberto Sergio della RAI, o peggio: a fare come quei commentatori che vanno sotto le pagine degli artisti a scrivere che sono pesanti e che fanno politica quando invece dovrebbero solo farci emozionare o divertire.
Anche se ogni tanto ce lo dimentichiamo, c’è tutto un mondo intorno.
Lo diceva pure una bellissima canzonetta.