Nel 2018 sono andato abbastanza in fissa con un disco di John Maus che si chiamava “Screen Memories” (lo trovate qui), tutto dedicato al concetto di “memoria schermo”.
La memoria schermo, diceva Freud, è quella che fa sì che i nostri ricordi, soprattutto quelli legati al periodo dell’infanzia, siano per lo più quasi tutti falsati.
Da una parte perché si tratta essenzialmente di ricordi indotti (quante volte i nostri genitori ci hanno raccontato di quella volta che a tre anni ci siamo ubriacati col vino bianco credendo che fosse tè freddo e poi abbiamo dormito per circa quindici ore? State dicendo che è successo solo a me?) che a forza di venire rivangati finiscono per generare delle memorie visive che in realtà sono al 100% posticce.
Io, per esempio, ho l’immagine vivida di me nella cucina di mia zia, con mio cugino che prende una bottiglia di vetro riciclata e mi versa un bicchiere di vino dicendomi: “Tieni, prendi un po’ di tè!”. Ho in mente come era vestito lui, la sua canotta azzurrina, le tazze appese alle pareti, il colore della tovaglia. Tutto. E anche se ho la consapevolezza che al 100% si tratta di un ricordo interamente basato sul racconto e sull’insieme di immagini annidate nella memoria e che fanno riferimento alla innumerevoli volte in cui sono stato nella cucina di mia zia insieme a mio cugino, quando penso a quella storia mi ritrovo di nuovo lì, a tre anni, pronto ad assaggiare il nettare degli dei e andare in coma etilico. Oh… what a journey!
Il concetto di “memoria schermo” è ovviamente molto più vasto e complesso di come l’ho descritto, e infatti si applica anche a tutte quelle cose di cui serbiamo un ricordo visivo ma non verbale. Il disco di John Maus, in ogni modo, spiega tutto meglio di come lo sto facendo io, e lo fa non solo attraverso i testi ma mediante delle scelte musicali che pescano dirette dalle sonorità che erano in voga quando Maus era un bambino - è nato nel 1980 - ma che qui vengono riprodotte proprio come se fossero circondate da quella strana nebbiolina che di solito avvolge i ricordi. Quindi immaginatevi dei synth sgranatissimi, batterie elettroniche che sembrano essere state campionate da vecchie videocassette su cui avete registrato le puntate di Superclassifica Show, quelle del Super Telegattone (miao!), voci filtrate, ecc.
Il territorio in cui si muove è quello che Mark Fisher e Simon Reynolds (prendendo spunto, ovviamente, da Derrida e applicando il tutto alla musica) avevano definito “Hauntology” (sì, vi ho appena linkato Wikipedia).
Apro una piccola parentesi per dirvi che sto scrivendo questo numero - il quarto - della newsletter dal computer di cui vi avevo parlato un mesetto fa. Quello dove non funzionava più la lettera B.
Perché ve lo sto dicendo? Che cazzo ve ne frega a voi?
Perché mi è successa una cosa stranissima e che in qualche modo c’entra con l’argomento di cui stiamo parlando. In pratica, dopo aver portato il computer all’Apple Store (sì, sono uno di quei fighetti che si ostina a comprare Mac nonostante ormai funzionino molto peggio dei PC) e avere scoperto che più o meno tutti i MacBook Pro del 2016 hanno la tastiera fallata e che quindi mi sarebbe stata cambiata gratuitamente, per la seconda volta, anche con la garanzia ormai scaduta da un pezzo, dopo pochi giorni dalla riparazione sono stato costretto a riportarlo indietro perché la batteria - che era stata cambiata, a mia insaputa insieme alla tastiera e quindi era nuovissima - aveva smesso di ricaricarsi. Dopo vari test è venuto fuori che probabilmente era difettosa anche la batteria e quindi si sono ripresi il mio Mac e l’hanno spedito nel luogo sacro in cui vengono aggiustati tutti i computer che per un motivo o per l’altro meriterebbero un viaggio a Lourdes.
Quindi è andata così: ho spedito il mio computer tutto ricoperto di adesivi accumulati negli anni e che a loro volta erano dei legati a dei ricordi - tipo il pass dell’ultimo tour de I Cani, quello all areas dei Flaming Lips ecc ecc - e mi sono visto tornare a casa un Mac con la scocca completamente nuova e nessun adesivo. Niente di niente.
Per un momento ho pensato che si fossero sbagliati e mi avessero spedito un computer nuovo perché magari il mio era morto durante la difficile operazione di sostituzione della batteria, e invece è venuto fuori che si sono resi conto di un problema allo schermo di cui io non avevo contezza e hanno di fatto impiantato il mio hard disk, la ram e la scheda madre del 2016 in un computer tutto nuovo. Tutto gratis.
Che culo, direte voi. E invece no.
L’ansia che mi porto dentro per quasi qualsiasi cosa e che mi accompagna fedelmente fin dalla più tenera età non riesce a non farmi smettere di pensare al fatto che avere un computer nuovo ma con “l’interno vecchio” sia una cosa sbagliata. Che non può funzionare. Che si romperà presto. D’altronde se è abbastanza normale utilizzare un involucro vecchio e pimparlo fino a trasformarlo in un’astronave, non mi era mai capitato di sentire il contrario. E rivoglio i miei cazzo di adesivi che invece, ho scoperto, resteranno di proprietà di Apple insieme a tutti gli altri componenti cambiati per contratto.
L’ansia, dicevo.
Io ammetto di essere un ansioso un filino atipico.
Vi faccio un esempio: tutti gli ansiosi che conosco - quindi tutte le persone che conosco - hanno un rapporto complicato con le partenze.
Che sia per lavoro o per vacanza, quando c’è un treno o un aereo di mezzo scatta inevitabile la paranoia. Ecco, io quella paranoia non ce l’ho.
O meglio ce l’ho di brutto, ma strana. Io vado in ansia se arrivo troppo presto negli aeroporti mentre sto bene se mi muovo sul filo di lana. La mia paura di perdere un volo spesso si manifesta nel cercare volutamente di rischiare di perderlo. E la stessa cosa vale per i treni. Poi, come tutti, anche io ho i momenti in cui resto atterrito e bloccato dai criceti che ballano i Chemical Brothers nella mia testa e non riesco a fare niente che non sia sviluppare pensieri negativi che generano altri pensieri negativi.
Perché, insomma, ansia va un sacco d’accordo con un’altra cosa che non nomino ma che tanto ci siamo capiti. Dai, quella parolina lì, quella tutta speciale.
Quella con la D.
Perché sono così?
Perché siamo così?
Chi è che ci vuole così?
L’assenza di futuro (o la sua cancellazione, per dirla come Bifo) su cui è praticamente basato il capitalismo contemporaneo, quella sensazione che tanto qualsiasi cosa facciamo, qualsiasi reazione abbiamo, qualsiasi posizione prendiamo, sarà comunque vana perché la società in cui viviamo galoppa veloce verso un fallimento ineluttabile.
Perché, e torniamo di nuovo a Mark Fisher e al suo “nichilismo edonista”, la consapevolezza che non esista un’alternativa possibile al realismo capitalista è l’elemento che condiziona ogni aspetto della nostra vita lavorativa, culturale e affettiva (come spiegato benissimo in questo bell’articolo di Paola Moretti). Essenzialmente: sappiamo che andrà tutto a puttane e quindi tiriamo i remi in barca e aspettiamo lo schianto. E la pandemia, cioè la variabile impazzita che manda in tilt il sistema, alla fine sta solo aumentando la velocità dell’impatto.
Doveva cambiare tutto, e lo sta facendo. In peggio.
Proprio alla pandemia, e al solco che sta scavando nell’animo di tutti noi, sono state dedicate tre puntate di Problemi, il podcast di Jonathan Zenti che tanto piace a vecchi e piccini e che tutti dovrebbero ascoltare almeno una volta. Io almeno ve lo consiglio tantissimo. Sopratutto queste tre puntate. La numero 5, la numero 6 e la 7.
Problemi con il male di vivere, l’adattamento e la ripartenza.
Nella voce e nel racconto, praticamente in tempo reale, di Jonathan ho rivissuto tutto il senso di spaesamento e panico che durante la prima fase di lockdown cercavo di mascherare impegnandomi a fare cose che potessero allietare e riempirmi le giornate mentre in realtà sentivo di andare in pezzi piano piano. La ripartenza di cui parliamo tutti giorni è una ripartenza per lo più lavorativa, economica, e civile, ma che sta inevitabilmente lasciando indietro tutti quelli che tra di noi non riescono a viaggiare alla velocità che questa società c’impone. L’impatto che il Covid sta avendo sulla salute mentale la vita emotiva dei singoli individui viene considerato, appunto, come una questione individuale, che ognuno di noi dovrebbe risolversi nel privato del suo focolare o sulla poltrona dell’analista da cui va in terapia. E non è così. Non dovrebbe essere così.
Ascoltando Problemi mi sono sentito un filino meno solo, e credo che questo discorso valga per tantissimi altri e che forse in questi momenti di crisi personale l’unica cosa che possiamo fare è davvero quella di aggrapparci alla comunità a cui apparteniamo.
Jonathan questa cosa la spiega benissimo e la fa coincidere con una data, quella del 14 aprile 2020, il giorno in cui Mirko/Zagor dei Camillas è stato strappato alla sua vita di salti, giravolte e capriole sul palco proprio da questo virus bastardo di cui ogni tanto qualcuno mette in discussione l’esistenza. Quel giorno lì è il giorno in cui è crollato tutto. E immagino che in tanti, in questo periodo, ne abbiano avuto uno simile. Ma quel giorno lì è quello in cui la mia comunità ha davvero capito che no, non ce la stavamo facendo e che non sarebbe andato tutto bene. Quel giorno ci siamo sentiti tutti più soli, davvero isolati nelle mura delle nostre case, ma pure vicinissimi, uniti, affranti e lontani. Proprio a Mirko, un paio di settimane fa, è stato dedicato un concerto tributo nella sua Pesaro in cui i Camillas che restano sono saliti sul palco in compagnia di tanti amici e hanno cercato di far vivere il ricordo proprio nel modo in cui lo avrebbe fatto Mirko: scherzandoci sopra. Quel concerto è visibile in streaming qui, e alterna momenti volutamente grotteschi e che vi faranno venire le convulsioni dal ridere, ad altri che invece fanno piangere tantissimo.
In quei giorni di aprile, con i compari di Ivreatronic, eravamo nel bel mezzo di questo progettino che avevamo inventato proprio per farci compagnia a vicenda in un momento in cui eravamo tutti forzatamente lontani gli uni dagli altri.
Sto parlando di Radio Indimenticabile e delle sue trasmissioni.
Alcune condotte anche da me.
Se non lo avete ancora fatto, vi consiglio di ascoltare la puntata di Disinforma e Rinuncia, lo show di Gioacchino Turù, andata in onda il giorno dopo la morte di Mirko. Vi giuro che è la cosa migliore che vi possa capitare di fare.
C’è anche la puntata del radioshow di Cosmo che Marco ha dedicato a Mirko e che è andata in onda proprio in quel maledetto pomeriggio in cui i nostri maledetti telefoni squillavano da ore in qualità di portatori di notizie e di merda. E poi c’è la mia selezione lunga due ore di solo canzoni dei Camillas tutte collegate l’una all’altra, che inizia con un minuto di silenzio, e che vi embeddo qui sotto e che vi porterà in un’altra dimensione. (Lo linko pure, ché magari l’embed non funziona.)
OK, siamo arrivati alla fine.
Lo giuro.
Come sempre, grazie a tutti se siete arrivati fino in fondo.
Avete il mio rispetto (e che cazzo ve ne fate, Dio solo lo sa).
Come l’altra volta vi invito a rispondere via mail a questa newsletter e mandarmi delle domande. Coltivo sempre il sogno bagnato di fare un numero speciale in cui rispondo alle cose che mi chiedete. Ne sono arrivate alcune ma ne vorrei di più.
Dai, impegnatevi. Daaaaaai!
Ah, giusto: questo numero si chiama Storia della mia ansia perché volevo raccontarvi del giorno in cui ho scoperto di essere ansioso, anche se forse non è mai esistito.
Allora: avrò avuto al massimo cinque anni e mi trovavo nel sedile di dietro della Horizon di mio padre. Lui era alla guida, mia madre sedeva di fianco a lui, mentre dietro c’era mia nonna Lea, mia sorella Ambra (che all’epoca aveva giusto due anni) e io. Erano gli anni ‘80, quindi scordatevi i seggiolini. Forse Ambra ne aveva uno, ma non ne sono così sicuro. Comunque eravamo tutti in macchina, nella strada che attraversa la campagna di Patrica e che porta fino al paese.
Io stavo facendo i capricci, litigavo con mia sorella, mi lamentavo. Insomma: rompevo il cazzo a tutti. Mio padre quando ero piccolo perdeva la pazienza facile e diciamo che io mi impegnavo molto seriamente per fargliela perdere il più possibile, in una scala di gravità che partiva dalle sgridate e finiva con le cinghiate (ehi, non scrivo questo per sputtanare mio padre, non è che qualcuno gli aveva detto come doveva fare il genitore, e se l’è cavata comunque benone e vado d’accordo con i miei. Capito?)
Insomma: io rompevo il cazzo, mio padre mi sgridava, io rompevo di più il cazzo e a un certo punto mio padre mi dice: “Se non la finisci ti faccio scendere dalla macchina e ti lasciamo qui!”, e io che avrei dovuto stare zitto invece rispondo: “Ok, fatemi scendere”. E lo fanno. Mi fanno scendere. Mi lasciano sul ciglio della strada e se ne vanno via.
Ciao ciao. Poi dopo quel punto i ricordi si fanno confusi: credo che abbiano fatto il giro dell’isolato e mi abbiano ripreso e che di base io sia stato fuori dalla macchina per boh, quaranta secondi? Eppure in quei quaranta secondi ho capito cosa significa avere paura per tutto quello che sarebbe potuto accadere da lì a un minuto dopo.
Era la prima volta, non ho più smesso.
Ah, anni fa ho provato a parlarne con i miei ma loro dicono che questa cosa non è mai accaduta, che mica erano scemi, che non lo avrebbero mai permesso e che in pratica si tratta di una cosa che forse ho sognato e che col tempo ho trasformato in un ricordo.
Screen memory, appunto.
Ah, ho aggiornato la playlist delle uscite del venerdì.
Eccola: