Milano Sanremo
Come una classica del ciclismo, ma in realtà si parla di hotel e di tante altre cose
Se penso agli ultimi dieci anni della mia vita, penso inevitabilmente agli alberghi.
Tanti. Ovunque, ma soprattutto in Italia.
Ho sempre considerato gli alberghi come dei non-luoghi del tutto simili agli aeroporti; entrambi sono stati concepiti per farti sentire esattamente come sei, esclusivamente di passaggio. Eppure tutti noi abbiamo degli aeroporti che ci piacciono più di altri, quelli in cui la normale ansia tipica di un viaggio che comincia è più affrontabile e gestibile. Quelli che dopo tanto tempo che ci passi inizi a conoscere come le tue tasche e in cui ti muovi sicuro come un esploratore che non ha bisogno della cartina per attraversare la giungla. Quegli aeroporti da cui sai che è bello partire, ma in cui non è mai bello tornare. Perché il ritorno, comunque tu la veda, è sempre un gran casino e tutti i minuti che ti separano da casa e da quella parte di casa che più ti manca quanto sei lontano (il bagno) sono l’equivalente di quella tortura cinese della goccia d’acqua che cade. Tant’è che se esistesse davvero l’agognato teletrasporto, io credo che forse lo vorrei usare solo per i ritorni. Tipo che sei in vacanza in un posto, è l’ultimo giorno, ti svegli, prepari la valigia e tac. Sei a casa. Sul divano. In mutande.
Cioè nel posto migliore del mondo col vestiario più adatto del mondo e il migliore stato d’animo del mondo. L’andata no, la meta è sempre bello raggiungerla, e impiegare il tempo che ci vuole è una parte importante del tutto.
Anzi, più dura il viaggio e più è bello. O almeno lo è per me.
Con gli alberghi, dicevo, la faccenda è simile anche se del tutto diversa: perché l’albergo è un posto in cui devi poter stare bene, ma non troppo.
Devi sentirti come a casa tua, ma non del tutto.
Devi volerci rimanere, ma devi sempre sapere che da lì prima o poi devi andare via.
Perché se il luogo comune dice che questa casa non è un albergo, la realtà è che anche questo albergo non è una casa. E un albergo è un albergo è un albergo.
Lo dicevo all’inizio, gran parte della mia esistenza recente è trascorsa negli alberghi e credo serenamente di avere dormito in quasi tutti gli hotel d’Italia. O almeno in una decina per regione. E, come per gli aeroporti, ho i miei preferiti, con la differenza che lì magari non ci finisci perché ci capiti ma perché te lo scegli.
Gli alberghi per me sono luoghi dove la solitudine si amplifica.
Lo sono sempre stati, ma lo sono diventati ancor di più durante questa maledetta epidemia di Covid, in cui anche i rituali piacevoli dello stare in hotel sono diventati complessi. La colazione, per esempio, è passata dall’essere un momento di gioia e scoperta a diventare un vero e proprio incubo. L’attimo in cui ti rendi conto davvero che c’è qualcosa che non va, che non torneremo più a occupare gli spazi nello stesso modo di prima e che, in qualche modo, non si è mai davvero al sicuro e bisogna sempre avere la guardia alzata. In quei buffet con i camerieri con i guanti e le mascherine, in cui si accede uno per volta, c’è tutta la difficoltà con cui affrontiamo le cose che fino a qualche tempo fa ci sembravano normali.
La gente in strada in una domenica di sole non sarebbe mai stata un argomento, una cosa da titolone di un quotidiano, una roba di cui discutere in famiglia con la stessa animosità con cui si discute di un’idea politica che non si condivide, eppure ora lo è.
La normalità è diventata sbagliata, ed è in atto una corsa all’ipercorrettismo in cui mostrarsi virtuosi è più importante che esserlo davvero.
Raccontarsi di comportarsi meglio degli altri, che invece si comportano male, è diventato quasi più importante di provare a stare bene.
Ho cominciato a scrivere questo numero della newsletter circa due mesi fa, nel corso di quella che è stata a tutti gli effetti la settimana più surreale di tutta la mia vita.
La settimana del Festival di Sanremo. Una settimana - che in realtà sono stati circa dieci giorni - vissuta interamente in un hotel. Un hotel della Liguria.
Un hotel in cui gli unici ospiti eravamo noi che eravamo lì per il Festival. E la banda della Polizia (che era anche lei lì per il Festival, ma noi non lo sapevamo).
L’idea era quella di buttare giù un diario in quasi tempo reale, ma il tempo poi si è allungato di parecchie settimane e di quella cosa lì è rimasto solo il titolo.
Tanto se ne è già parlato pure troppo, di Sanremo.
E noialtri ci abbiamo fatto pure un audio-documentario sotto forma di podcast in cui è possibile sentire la mia voce rotta dall’ansia e dalla mancanza di sonno in tutto il suo decadente splendore. Non credo quindi che abbia tanto senso dilungarmi sui gamberi flambé e altro, ché tanto sapete già tutto.
Quella settimana, e tutto quello che è accaduto dopo, ha fatto nascere in me la voglia di parlare un po’ dell’ossessione per i numeri, che se prima erano solo un fattore di interesse per gli addetti ai lavori della discografia ora sono diventati importanti anche per chi la musica la ascolta e per la critica.
Mi rendo conto che a scrivere queste parole dopo circa due mesi in cui mi avrete probabilmente visto celebrare record e risultati del tutto inaspettati e sorprendenti potrei suonarvi ipocrita, ma vi giuro che non lo sono.
Penso da sempre che i numeri visibili degli ascolti sulle piattaforme streaming siano uno dei grandi problemi che segnano il modo in cui tutti ci rapportiamo alla musica.
Da ragazzino il sapere o meno se un disco che aveva attratto la mia curiosità fosse di successo, o il suo contrario, non era neanche un argomento.
Non dico che più una cosa era sconosciuta e più era interessante, non ho mai avuto quel tipo di snobismo, ma di certo il suo successo non era un valore. E non era un valore per nessuno, se non per i discografici che ci avevano lavorato o per gli artisti.
L’impeto grillino con cui si è gridato alla trasparenza di ascolti e views ha in realtà fatto sì che questi si siano trasformati in una discriminante pure per chi la musica la fruisce e basta. E così ogni volta che esce il nuovo album o il nuovo singolo di un qualcuno, succede che non se ne parla quasi più in termini di valore assoluto e artistico, ma solo in virtù dei risultati. Ci sono fan del rap italiano che da mesi si scannano per stabilire se il disco di Sfera Ebbasta possa essere considerato o meno un flop dal punto di vista commerciale, e questo tipo di discussioni hanno completamente eclissato il resto. Non è importante che sia o meno riuscito, è importante che funzioni.
E se non funziona, allora forse se ne può ragionare anche in virtù del contenuto (ma sempre in relazione a i numeri e non fine a stesso). I numeri, ormai, sembrano essere diventati tutto anche per la critica, finendo per ribaltarne completamente la valenza. Una volta il ruolo del giornalista musicale era simile a quello di una guida, che come un novello Virgilio ti trasportava nel sommerso delle uscite e ti aiutava a discernere cosa meritava da cosa no. A prescindere dai riscontri.
Adesso anche quel ruolo ha quasi completamente cambiato prospettiva, e capita più facilmente che si scriva della cosa che piace a tutti e che interessa a tutti proprio e solo nel momento in cui sta piacendo a tutti. La valenza culturale ha lasciato spazio ai click a colpo sicuro e improvvisamente ogni disco pop del pianeta Terra sembra essere diventato degno di sovraletture dalla grande portata sociologica.
Capiamoci: amo il pop e amo anche vedere nelle opere d’arte più di quello che appare, ma è possibile che tutto quello che produce Justin Bieber sia degno di un longform, mentre magari lo stesso spazio non viene dato a chi se lo merita davvero ma non gode della stessa visibilità?
Vi rendete conto di quanto sembra ingenuo il quesito che vi pongo?
Forse vuol dire che siamo arrivati alla fine, ma se siete qui perché vi piace sentirmi parlare di queste cose vi metto due video-interviste che mi vedono - ehm - protagonista e che sono state realizzate da poco:
Nella settimana in cui anche in Italia i vinili hanno cominciato a vendere più dei CD pare ormai ufficiale che il CD stia per tornare a essere un formato interessante.
Se la questione vi interessa, vi metto qui un articolo sul tema.
Per la mia esperienza personale posso dire che all’inizio della pandemia, diciamo aprile 2020, ho comprato uno stereo con lettore CD dopo circa un decennio di non uso del supporto. L’ho fatto perché ho casa piena di quella roba e parecchia della quale non è disponibile nelle piattaforme di streaming. Devo dire che timidamente ho anche ricominciato a comprarne e proprio questa mattina mi sono sparato in sequenza un disco di Mike Watt e uno dei Bauhaus.
Insomma, è un argomento scottante e credo che ci tornerò, magari con un esperto del tema.
Se siete appassionati di musica ambient o similari, vi consiglio questa compilation che raccoglie il meglio della scena ambient ed exotica spagnola dal 1983 al 1990:
Già il titolo è stupendo e l’etichetta che la pubblica ha il nome fantastico di Bongo Joe, della quale vi consiglio anche queste due raccolte uscite pochi giorni fa per celebrare i cinque anni della label:
Ieri sera, un po’ per noia un po’ per farmi due risate, ho improvvisato una breve selecta casalinga di musica italiana.
E sempre per farmi due risate l’ho trasformata in una playlist.
Si chiama CVLTO ITALIANO.
La trovate qui:
Per una volta l’ho fatta collaborativa, quindi se volete partecipare fate pure ma rispettatene lo spirito altrimenti è un attimo che torno alla dittatura.
A proposito… buona liberazione!
Tornerò, o prima o dopo.
Fatevi sentire.
Ciao.