Mia nonna Lilia era una donna forte. Fortissima. Praticamente Hulk.
Fino a quando la salute e la testa lo hanno permesso, non ha mai voluto rinunciare ai sui spazi, alla sua autonomia. È rimasta nel suo paesello, da sola, aggrappata con le unghie e con i denti alla sue abitudini fatte di tre o quattro messe al giorno, il mercato in piazza al venerdì, il giornale comprato tutti giorni nella barberia del nipote - mio zio Peppino che, nonostante l’età adulta e la mole importante, è sempre stato chiamato da tutti così forse a causa del suo essere rimasto “signorino” - e altre piccole cose che per chiunque altro sarebbero state insignificanti ma che per lei erano la rappresentazione della sua vita libera nel suo amato paesino.
Nonna Lilia era sì forte, fortissima, praticamente Hulk, ma era anche tirchia, tirchissima, praticamente Scrooge.
Durante l’anno passava da noi giusto le settimane prima del Natale, mentre d’estate io e mia sorella, spesso a turno, venivamo deportati per una quindicina di giorni di vacanza da soli a casa sua.
Quindici giorni in cui noi due bambini considerati relativamente di città venivamo emarginati dai bambini di paese, che nella mia testa comandavano e avevano più peso del sindaco come in una sorta di versione provinciale de “Il signore delle mosche”.
Mia nonna che quando ero nato non aveva accettato che i miei non avessero voluto chiamarmi come il nonno e che, per un sacco di tempo, mi aveva presentato a tutti come Giovannino, non si capacitava della nostra mancata integrazione e cercava di spingerci a socializzare. Per lei, e anche per noi, un momento importante era quello del gelato giornaliero che ogni giorno potevamo andare a comprare al bar. Gelato per cui ci dava 100 lire al giorno, anche se in realtà anche solo un ghiacciolo già costava minimo 500 lire, e che io e mia sorella potevamo comprare solo con i soldi che - di nascosto - ci avevano lasciato i miei. Mia nonna era rimasta vedova e con due figli a carico quando mio padre, il minore dei due, aveva solo dodici anni, era dura, non affettuosissima, pragmatica, con i capelli sempre legati a cipolla e una scatola piena di 1000 lire che teneva da parte per una specie di strana lotteria TV presentata da Lando Buzzanca. È morta nel 1997, proprio mentre stavo facendo i “3 giorni”, la visita da cui si sarebbe capito se ero abile o meno alla leva.
Ho ricevuto la chiamata dei miei che avvertiva me e mia sorella della cosa mentre stavo guardando la registrazione di una puntata di Help di Red Ronnie con ospiti i Litfiba.
Per cui, da quel momento, mia nonna Lilia è diventata una canzone dei Litfiba. Questa qua, quella che stavano suonando in acustico in quel momento (la cosa assurda e surreale è che, poco più di un anno dopo, avrei saputo della morte dell’altra nonna - Lea - mentre ero in camera mia e ascoltavo “In quiete” dei C.S.I.).
In ogni modo, quando stavo da lei - se Ambra non c’era - dormivo nella sua camera dove erano piazzati da quando ne ho memoria solo due lettini singoli separati da due comodini, gli immancabili centrini e poi tanti cristi e madonne appese alla pareti.
Prima di andare a dormire mia nonna si scioglieva e spazzolava i capelli che, incredibilmente, si rivelavano bellissimi, lunghissimi e bianchissimi. Era l’unico momento del giorno in cui me era permesso di vederla così, con una luce diversa rispetto al solito: meno dura, più vulnerabile, anche dolce. Quasi.
Una volta al letto iniziava il momento delle preghiere, e lì - in maniera quasi automatica - potevo farle delle domande. L’argomento più o meno era sempre lo stesso e non so perché mi era presa così, ma con mia nonna prima di andare a dormire, per quindici sere all’anno d’estate, io parlavo della morte.
Di cosa succede dopo. Di cosa succede a chi resta vivo.
Del paradiso, dell’inferno. Quello che accade al corpo e quello che, invece dovrebbe accadere all’anima.
Ogni sera parlavo con mia nonna della morte, e ogni giorno che passava il pensiero e la paura di morire cominciava a farsi strada in me in maniera sempre più strisciante.
Una cosa, in particolare, mi turbava un casino: il fatto che con la morte tutti i miei ricordi sarebbero scomparsi, la mia vita non avrebbe avuto più senso. Sarei stato puro spirito, felice, in compagnia di Dio (mia nonna aveva due sorelle suore, per cui figuratevi…), ma avrei dimenticato tutti i momenti importanti della mia vita, i sentimenti, i compagni di scuola, tutto. E anche se all’epoca i ricordi che avevo così paura di perdere erano limitati a cose del tipo: “il giorno in cui mi hanno regalato la BMX”, tutto questo mi sembrava aberrante, profondamente ingiusto. Terribile.
Poi però succede che si cresce e cominciano a crescere anche i lutti, muoiono i parenti prossimi, gli amici, i conoscenti e la morte smette di essere una cosa astratta, lontana e inafferrabile. Fa sempre paura, certo, ma sai che c’è, esiste e insomma meglio pensare a vivere oggi che a morire domani.
L’unica cosa che è rimasta uguale rispetto a quei giorni in cui avevo solo cinque o sei anni e parlavo con mia nonna della morte, è la certezza che vivere credendo di poterla arginare non è possibile.
Mi è capitato di pensare a tutto questo nei giorni scorsi, osservando i dati relativi ai contagi in aumento e l’eterno di ritorno di comportamenti che erano emersi già sette mesi fa: l’astio nei confronti dei runner, le presunte strette anti movida, lo stesso uso del termine movida che solo a scriverlo dovresti metterti a ridere a meno che tu non sia Almodovar, l’idea pesante e pericolosa che la morte di alcuni sia imputabile agli altri. L’essere umano, dal giorno in cui nasce, viene educato all’idea della fine come di un qualcosa che non può controllare, e nelle normative - sacrosante - di questo periodo è impossibile non scorgere un’idea di svolgimento della vita diversa da quella a cui siamo stati abituati fin dalla nascita.
Perché alla fine, il tanto anelato ritorno alla normalità non dovrebbe riguardare la possibilità di andare a fare la spesa senza mascherina ma proprio il tornare a pensare alla morte nel modo in cui ci pensavamo otto mesi fa.
Come sempre grazie a tutti quelli che sono arrivati fin qui.
Come vedete sto cercando di ritornare a una scansione settimanale delle uscite, ma non prometto niente.
Giusto per restare in tema, vi lascio un disco stupendo di qualche anno fa e che parla - ovviamente - proprio della morte.
Al solito: se avete domande, fatele pure.