La fine infinita dell’estate infinita
Brian Wilson non appartiene a nessun tempo quindi è di ogni tempo.
La città di Los Angeles ha perso in pochissimi mesi sia David Lynch che Brian Wilson. Due geni indiscussi del 900, ma non devo certo dirlo io, che pur essendo distantissimi hanno calcato le medesime rotte artistiche ballando in equilibrio fragile sullo stesso identico filo.
Lynch ha squarciato il velo del consueto andando a mostrare le crepe che emergono dalla perfezione. Il lato oscuro nascosto dove tutto sembra brillare. L’incubo dell’apparenza vs l’inconsistenza della realtà.
Wilson invece ha consacrato una buona parte della sua esistenza alla ricerca senza sosta di una perfezione irraggiungibile, finendo per rimetterci il senno e abbracciando quello stesso lato oscuro seppur mascherato di supposta leggerezza e felicità.
L’infinita estate dei Beach Boys e la tranquillità esibita di Twin Peaks.
È tutto lì.
Con Los Angeles a fare da sfondo.
La città degli angeli caduti, è stata il loro palcoscenico. Una metropoli di sogni e specchi infranti, dove la luce del sole si riflette su piscine vuote e i boulevard scintillanti conducono a vicoli senza uscita popolati di esistenze vuote e fallimentari. Wilson e Lynch, in modi diversi, hanno catturato l’anima di questo luogo: un paradiso che è anche un inferno, un luogo dove la bellezza e l’orrore convivono, intrecciati come amanti nel sogno californiano e nell’incubo dell’abisso umano.
Nella testa di Brian Wilson suonavano infinite sinfonie. Tutte le musiche del mondo, le melodie più belle. Armonie celestiali che si intrecciavano in un vortice di colori e possibilità, come se il cosmo stesso gli sussurrasse i suoi segreti attraverso le note. Ogni sua canzone è stata un tentativo di afferrare il sole, di fermare il tempo, di trasformare il caos della vita in un’armonia immacolata.
Eppure, dietro quelle melodie radiose, c’era sempre l’ombra: la paura, la perdita, il senso di un vuoto che nessuna nota poteva colmare. L’incapacità di reggere il peso del ruolo che la vita aveva scelto per lui, unita alla consapevolezza di un talento fuori dall’ordinario. Se “Pet Sounds” è stato il suo capolavoro e “SMiLE” l’equivalente in musica della Sagrada Familia - l’eterna incompiuta volta al raggiungimento dell’assoluto, il continuo e fallace inseguimento dell’uomo verso la grandezza di Dio - è “Surf’s Up” che forse meglio spiega l’essenza di Brian Wilson e dei Beach Boys. Il disco del 1971, figlio non voluto delle sessioni di registrazioni di “SMiLE” di cui porta con se delle tracce, rappresenta proprio l’esplosione di quella dualità di cui parlavo poche righe sopra. Spesso considerato un capolavoro incompreso, “Surf’s Up” è un mosaico di luce e oscurità, un’opera che rifiuta la semplicità dell’eterna estate per scavare nelle profondità dell’anima. Un atto di redenzione e, al contempo, un’ammissione di sconfitta. In quel disco ci sono i Beach Boys del presente che cercano di liberarsi del loro passato. A partire dalla traccia di apertura che, con un invito esplicito a stare lontani dall’acqua, amplificava una volta per tutte la distanza ormai siderale dai Beach Boys del surf e dalle canzoni da spiaggia.
Ma tutto l’album può essere visto come un’ode alla bellezza che si dissolve, un lamento per un’innocenza perduta, quello che accade dopo la fine del sogno.
Come in “’Til I Die” dove Wilson si confronta con la mortalità, immaginandosi come una foglia trascinata dall’oceano, e per una volta in maniera esplicita espone al pubblico tutta la fragilità che aveva segnato quella parte della sua vita.
Eppure, anche in questa vulnerabilità, c’è una bellezza trascendente, un’armonia che trasforma il dolore in poesia. “ ‘Til I Die” non è solo una canzone: è il ritratto di un artista che guarda oltre la superficie, trovando nel caos una verità più profonda. In quel momento il mare del surf non è più solo un simbolo di libertà giovanile, ma un abisso che riflette l’infinito.
I lost my way/hey hey hey. Un verso che è sia tristissimo, sia pop allo stato più puro.
Brian Wilson in pochissime parole e senza nessun filtro.
Lui che si era sempre detto così poco interessato alla scrittura delle liriche, qui per una volta si lascia andare e non si nasconde. Davvero.
Quel disco strano, dato alla luce in un momento difficilissimo, col gruppo praticamente senza una direzione e con Brian che, troppo frustrato dalle disavventure precedenti, quasi non andava più in studio e lasciava al fratello Carl il ruolo di direttore artistico/leader della band, ha letteralmente segnato una generazione di musicisti. Dai Wilco a Panda Bear, passando per mille altri, sono in tanti ad avere pescato proprio da quel pezzo e non ne hanno mai fatto mistero.
Segno che l’influenza dei Beach Boys anche nei momenti più cupi della loro carriera, e meno riconosciuti dal successo commerciale, ha superato i confini dello spazio e del tempo. Una cosa di tanti anni fa che è viva, forte e potente ancora adesso.
Per sempre.
Ma come si sopravvive a una vita così?
Come si affronta il mondo quando tutti continuano a ricordarsi le cose che facevi quando avevi vent’anni, eri giovane, bello e tutto sembrava una possibilità?
Chissà se è esistito un momento in cui Brian Wilson si è sentito in pace con se stesso, me lo chiedo ogni volta che ascolto “I Just Wasn’t Made For This Time”, il disco del 1995, dove ci sono alcuni inediti affiancati a nuove versioni di brani del catalogo dei Beach Boys (perché Brian Wilson, più di ogni altro suo contemporaneo, ha sempre fatto una fatica mostruosa a lasciare andare le proprie canzoni e se le è portate dietro come un fardello. Penelope assediata dai Proci che tesse la sua tela).
In quell’album, che si chiude proprio con una versione quasi balearica di “ ‘Til I Die”, c’è una canzone che è un colpo al cuore ogni volta che la ascolto.
Si chiama “Still I Dream of It” ed è un brano piano e voce registrato probabilmente in one take nel 1976, anche questo con il testo scritto interamente da Brian e poi pubblicato dai Beach Boys in versione più compiuta in una raccolta dei primi anni ‘90.
Qualche anno fa quella canzone era diventata un’ossessione per me, la cosa più Daniel Johnston mai composta da uno che non era Daniel Johnston ma che per certi versi ne è stato il padre putativo. La voce rotta, imprecisa, la drammaticità del testo e i soliti accordi meravigliosi che lasciano immaginare architetture complessissime e che invece sono perfette così. Nude e crude. Senza via di scampo.
Non sarà il suo pezzo più importante, e ovviamente neanche il più famoso, ma è quello con cui lo voglio ricordare e ringraziare.
Dovremmo farlo tutti.
'Til then I'm just a dreamer
I'm convinced of it
The hypnosis of our minds can take us far away
It's so easy now
You see someone up there high
And heaven's here to stay