Paolo Benvegnù è un grande scrittore di canzoni. Dico è e non è stato perché le canzoni sono, per nostra fortuna, eterne. Restano anche quando tutto il resto passa e concedono il dono dell’immortalità a chi le scrive.
Paolo ne ha scritte tante, io ne ho amate molte. La mia preferita credo sia un brano minore - nel senso che non è in nessun album ufficiale - ma importantissimo: Nel silenzio. Una canzone facile, leggera, che parla della fine di un amore e che Paolo ha sempre più o meno rinnegato ma senza mai lasciarla davvero andare. L’ha sempre inseguita, l’ha addirittura registrata e pubblicata due volte ma senza esserne mai del tutto contento. Per fare un parallelismo facile: sta alla sua carriera di musicista e attore di canzoni proprio come True Love Waits sta a quella dei Radiohead. Una canzone che è stata scritta all’inizio di una carriera poi diventata lunga, rimasta sempre imperfetta e per questo amata, tramandata, e conservata dagli appassionati come si conserva un bene prezioso. Un tesoro nascosto. Una gemma che puoi tenere in mano solo se fai parte del nostro club esclusivo. I Radiohead alla fine sono riusciti a farla come volevano True Love Waits e l’hanno pubblicata nel loro ultimo album in studio. Paolo invece l’ha messa via. Ne ha sempre riconosciuto il potenziale ma forse proprio per questo ne ha sempre preso le distanze. Ne abbiamo parlato tante volte: Nel silenzio se fosse capitata nelle mani giuste sarebbe potuta essere una di quelle canzoni che ti cambia la carriera. Paolo questo lo sapeva, ed era il motivo per cui aveva deciso di lasciarla lì. Troppo facile, troppo diretta, troppo per per tutti, mentre lui aveva deciso di non essere per tutti, cercava un pubblico che somigliasse a lui e teneva lontani gli altri e questo senza mai essere snob o altro. Voleva essere compreso, o almeno questo è quello che ho sempre dedotto io. Perché Paolo Benvegnù in realtà è stato un sacco di cose, tutte nello stesso momento. Conteneva moltitudini, cosa che emergeva anche nella sua scelta di non raccontarsi mai come un solista ma come il cantante di un gruppo che si era scelto come nome il suo nome e cognome di battesimo. Paolo Benvegnù dei Paolo Benvegnù. In questi giorni di lutto si parla tantissimo di lui come esempio di coerenza e integrità artistica, ma Paolo era tutt’altro. La sua purezza, la sua umanità, le sue scelte impopolari e mai “sicure”, le ha pagate tutte e la vita gli ha fatto davvero pochi sconti. La precarietà esistenziale ed emotiva è una parte centrale della sua poetica d’artista. Quando penso a Paolo penso a qualcuno a cui nessuno ha regalato niente e che ha dovuto sudare per tutto. La sua musica è una casa che ha costruito mattone per mattone. Senza aiuti o condoni.
Quando muore una persona che ha fatto parte della vita di tanti, i ricordi che sono di tutti si fondono con quelli personali e c’è sempre il rischio di finire a celebrare noi stessi anche se nel tentativo di ricordare qualcun altro. La verità è che ogni dipartita si porta dietro un pezzo della vita di quelli che rimangono. È un po’ come prendere un faldone e stiparlo in un archivio: quella cosa c’è, esiste, fa parte di te, ma finisce in un cassetto che resta chiuso e fermo nel tempo mentre la vita continua a scorrere. Lo puoi aprire ogni tanto quel cassetto, toccarne il contenuto con mano, sfogliare le pagine dei ricordi e poi rimetterlo lì.
Non volevo scrivere niente di Paolo, questo 2024 si è portato via tanti pezzettini e sono ancora troppo rotto, con un sacco di buchi, che davvero faccio fatica a rimetterli a posto. Ho deciso di farlo, però, perché è l’unico modo che conosco per dire le cose che non riesco a dire e anche perché forse è proprio giusto così.
Quando ci siamo conosciuti, io ero solo un ragazzino che doveva ancora fare gli esami di maturità e lui già uno di cui vedevo i video su MTV. Era appena venuta a mancare mia nonna e i miei mi avevano concesso di affrontare lo stress degli esami continuando comunque a fare una vita normale, a uscire. Ricordo che era pomeriggio e c’erano i mondiali del 1998, giocava la Giamaica e io vado a casa del mio amico Marco a vedere la partita. Quella stessa sera saremmo andati insieme ad altri nostri amici a vedere gli Scisma a Palestrina. Quel disco Rosemary Plexiglas lo avevamo consumato, per noi era un vero evento. Gli Scisma sono stati un incidente capitato al pianeta della musica italiana di quegli anni, così diversi da tutti, unici, delicati, europei. Io me ne sono innamorato subito e non ho mai smesso. Di quel concerto ricordo ancora tutto, ma ricordo soprattutto il dopo, perché quella sera mi sono imbattuto casualmente in persone che ancora vedo e frequento. Una di quelle serate che ti cambiano la vita. Ricordo che aspettammo il gruppo e facemmo serata insieme a loro, Paolo era un vulcano di battute, cazzate, frasi velenose e abbracci. Un mattatore.
Ci siamo scambiati i numeri di telefono, due telefoni fissi, uno col prefisso della provincia di Brescia e uno di Frosinone. Io un ragazzino e lui già grande. È cominciata così, ed è finita con io che parto per andare a trovarli sul lago di Garda mentre registravano “Armstrong”. Un disco che era in realtà un salto nel vuoto e per cui avevano deciso di fare di testa loro, scegliersi il produttore che volevano e rischiare il tutto per tutto. Un disco splendido: se non il migliore tra quelli usciti in Italia in quegli anni, di certo uno da top 5.
Non riesco a non pensare a Paolo senza mettere in fila alcuni degli innumerevoli episodi vissuti insieme a lui, in quel periodo della mia vita in cui cominciavo l’università e parallelamente a scrivere di musica. E quindi penso a Paolo che fa l’imitazione di Galliani, a me nel furgone con tutto il resto degli Scisma che, parcheggiati davanti la RAI, ascoltiamo Paolo e Sara in radio che vengono intervistati per la presentazione di “Armstrong”. Penso al 14 febbraio del 2000, la sera del compleanno di Paolo e anche del loro concerto a Radio Rai, la sera in cui si sono sgretolati come gruppo proprio davanti ai miei occhi, durante una cena da Dante. Penso a Isabella che ascolta il concerto da Monaco solo perché sapeva che io ero li. Penso a Paolo che sparisce, che va a fare il panettiere e il cameriere, che vive in macchina e arriva a Firenze. Penso a noi che ci incontriamo per caso e non ci molliamo più, di nuovo. Penso a quando Firenze voleva dire casa di Gaia, a fare l’alba in terrazza dopo il concerto dei Radiohead in piazzale Michelangelo dove non era venuto perché non aveva i soldi del biglietto. Il concerto di addio degli Scisma alla Flog, il pranzo del giorno dopo alla Casa del Prosciutto con un temporale che arriva a sorpresa a farci scappare tutti prima degli abbracci, come nel finale di un film. Penso a Paolo e Alex che mi riportano in stazione e Nicola che suonava il violino e doveva partire anche lui. Penso al tour di Piccoli fragilissimi film, a me e Giulia che ci consociamo da poco e facciamo da Trieste a Venezia solo per venire al concerto. Penso a Gionni a cui si rompe una boccia di popper nella tasca dei pantaloni e che cerca in tutti i modi di convincerci a portarlo in Slovenia anche se il giorno dopo suonavano a Roma. Penso a Paolo che dorme in quella che una volta era la casa di mia nonna, alla festa assurda dove siamo finiti in centro dopo un concerto al Circolo. Alle trasferte con Romina e Pasquale. A Paolo che mi chiama al telefono e mi dice che Vasco Rossi vuole cantare una sua canzone e me la canta tutta facendo la voce di Vasco. Penso al Pinocchio in teatro dove interpretava Lucignolo. Un lucignolo con la Jazzmaster. Penso ai format pazzi come “Camerieri” e “Marinai”, alla Cantina meditarraneo, a Luca, Andrea, Guglielmo, Igor e tutti gli altri. Penso a noi che camminiamo sotto il tunnel a San Lorenzo e che parliamo dei Beatles e di quanto ci piaceva Hello, Goodbye. Penso al giorno in cui mi ha detto: “Tu devi proprio sentire questo disco, non puoi andare avanti senza sentire questo disco” e quel disco era quello solista di Mark Hollis. Un album che mi fa pensare a Paolo Benvegnù più degli album stessi di Paolo Benvegnù. Un disco che inizia con 22 secondi di silenzio e finisce sempre così. Nel silenzio.
Penso alle mille telefonate promesse e mai fatte. Agli “scusa ti richiamo dopo” che poi dopo non c’era mai. Penso al fatto che negli ultimi dieci anni ci siamo un po’ persi e lasciati andare, ma penso pure a quello che ci siamo detti l’ultima volta che ci siamo parlati, la scorsa estate a un festival a Arezzo, e sono contento che abbiamo fatto in tempo a raccontarci di non avere mai smesso di provare gioia per le cose belle che capitavano a uno o all’altro e a incazzarci per quelle brutte. Anche così, a distanza. Dopo 22 secondi di silenzio.
♥️