Corporate rock still sucks
Appunti sparsi su un po' di cose accadute nel corso di questa settimana
È uscito il nuovo disco dei Måneskin, non so se ve ne siete accorti.
Ammetto di averlo anche ascoltato, ma non penso che sia il caso di parlarne approfonditamente in questa newsletter (non mi è piaciuto, ma non mi ha neanche infastidito. Diciamo che è passato senza lasciare traccia).
Dei Måneskin mi colpisce sempre molto il modo in cui riescono a triggerare una certa tipologia precisa di ascoltatore italiano e anche a surfare con grande abilità sul rumore di fondo che generano con le loro sortite extra musicali (il matrimonio tra i quattro componenti della band, sulla falsa riga di quelli che celebravano il Cardinal Milingo e il Reverendo Moon, ne è un grande esempio).
Niente di nuovo eh, è quello che più o meno hanno sempre fatto le band pop ed è così che funziona il gioco. Ma tutte le pubblicazioni online che hanno sacrificato la deontologia professionale in nome del clickbait (quindi tutte e basta), dovrebbero dedicare un monumento a ‘sti quattro ragazzi di Roma, un altare votivo, una processione. Grazie Damia’ che anche a ‘sto giro ci hai fatto magna’. Prosit!
Per esempio, negli ultimi giorni ha girato tantissimo una recensione - molto negativa - del loro ultimo album pubblicata dal magazine americano The Atlantic.
Una recensione interessante, ben scritta, che tocca dei punti ben precisi e che, soprattutto, è divertente da leggere. Quello che una recensione - positiva o negativa che sia - dovrebbe sempre essere e che molto spesso non è.
Ma ancora più interessante della recensione è il modo in cui sulla stampa italiana questa stroncatura ha riverberato. Ne hanno parlato TUTTI (un po’ come anche per i commenti, questi si che lasciano il tempo che trovano, di Uto Ughi), l’hanno ripubblicata TUTTI. Il risultato è un surreale corto circuito in cui questo articolo compare di fianco a degli elogi (in molti casi tiepidi, in alcuni casi caldissimi) firmati da giornalisti che sui loro social ostentano selfie con Victoria, Ethan e Machine Gun Kelly, scattati a quel benedetto matrimonio fluido, ma che in molti casi sembrano preferire l’arte del pizzino a quella della critica.
Il giornalismo musicale sembra avere perso completamente la sua funzione confermando una china intrapresa ormai da qualche anno: tutto diventa promozione.
Tutti siamo criceti che girano nella stessa ruota.
C’è poi un altro discorso che accompagna i Måneskin fin dalla loro vittoria all’Eurovision: una strana forma di nazionalismo applicata la musica che così non si era mai vista. E Ok, siamo italiani e un fenomeno globale nel rock’n’roll non lo avevamo mai avuto e probabilmente non lo avremo mai più, ma quando si parla di loro tutto viene riportato anche in quell’ottica. E così un articolo come quello di The Atlantic diventa una scusa per far dire agli altri quello che non si ha il coraggio di dire noi, ma pure il modo per solleticare una certa reazione di pancia all’altezza del: “Ma che cazzo vogliono ‘sti americani bastardi, ma come si permettono?”. Un fenomeno che è partito fin dal momento in cui Gabriele Corsi su Rai Uno annunciò la loro affermazione nel concorso canoro europeo con la stessa enfasi con cui Galeazzi commentava una vittoria degli Abbagnale o Caressa quella della Nazionale italiana di calcio ai mondiali del 2006. I Måneskin rappresentano quattro ragazzi di diversi quartieri di Roma che stanno vivendo il sogno hollywoodiano della band che dal nulla arriva a prendersi tutto, e in questo non possono non stare simpatici (o almeno a me lo sono), ma non sono i portabandiera dell’Italia, un loro successo non è il successo di tutti gli italiani, non dovrebbero andare a toccare quel tipo di orgoglio.
È musica. Non la parata del 2 giugno. Che poi chi cazzo c’è mai andato alla parata del 2 giugno. A parte gli invasati e i fascisti.
Con quattro anni di ritardo ho scoperto questo bel podcast che si chiama The Sacred, condotto da Elizabeth Oldfield e tutto dedicato al senso del sacro e al significato diverso che questa parola ha per ognuno di noi. Gli ospiti dell’ultima puntata sono Nick Cave e il giornalista Seán O’Hagan che, oltre essere molto amici, insieme hanno realizzato una lunga conversazione in forma di libro (consigliatissimo) che si chiama “Faith, Hope and Carnage”, pubblicato anche in Italia da La nave di Teseo. I temi affrontati nella puntata sono gli stessi del libro: la sacralità, l’elaborazione del lutto, la fede… Il podcast è sviluppato sempre come una serie di conversazioni tra persone di estrazione diversa e che appartengono sempre al mondo della cultura.
Ci sono i credenti e ci sono gli atei. E c’è la sacralità che ha un valore diverso per ogni individuo diverso. Interessante.
A margine c’è anche questa nuova puntata dei Red Hand File di Nick Cave in cui si parla di intelligenza artificiale applicata alla scrittura di canzoni.
Vi copio un piccolo passaggio:
"What makes a great song great is not its close resemblance to a recognizable work. Writing a good song is not mimicry, or replication, or pastiche, it is the opposite. It is an act of self-murder that destroys all one has strived to produce in the past. It is those dangerous, heart-stopping departures that catapult the artist beyond the limits of what he or she recognises as their known self. This is part of the authentic creative struggle that precedes the invention of a unique lyric of actual value; it is the breathless confrontation with one’s vulnerability, one’s perilousness, one’s smallness, pitted against a sense of sudden shocking discovery; it is the redemptive artistic act that stirs the heart of the listener, where the listener recognizes in the inner workings of the song their own blood, their own struggle, their own suffering. This is what we humble humans can offer, that AI can only mimic, the transcendent journey of the artist that forever grapples with his or her own shortcomings. This is where human genius resides, deeply embedded within, yet reaching beyond, those limitations.”
Come sicuramente saprete è venuto a mancare David Crosby, un genio assoluto della musica americana e ha che ha attraversato da protagonista almeno due storie di grandissimo successo e importanza. Quella dei Byrds e quella - ovvia - di Crosby, Stills, Nash e Young. Autore anche di svariati dischi solisti, tra cui quel capolavoro assoluto di “If I Could Only Remember My Name”, uscito più di cinquant’anni fa, e disco culto totale per gli appassionati di psichedelia e folk. Se non lo conoscete, c’è questa bellissima recensione firmata da Carlo Bordone che vi farà sicuramente venire voglia di ascoltarlo (non ve lo linko perché su Spotify è presente una versione mutilata dai brani realizzati con Neil Young e quel disco va ascoltato tutto di fila).
Se avete voglia di approfondire il personaggio c’è anche questo long form appena pubblicato da Pitchfork e mi sento di spingervi anche l’autobiografia di Graham Nash che di Crosby è stato forse il sodale più fedele (nonostante la loro amicizia e carriera sia stata attraversata da scazzi sovrumani).
Questa settimana ha compiuto anche gli anni Jim O’Rourke, e OK messa così non è una grande notizia. Però a ridosso del lieto evento, lui e Eiko Ishibashi, che oltre essere sua moglie è soprattutto una musicista e compositrice eccezionale (sua, tra le varie cose, anche la colonna sonora di “Drive My Car”), hanno inaugurato un Bandcamp dove stanno pubblicando da giorni dei live realizzati insieme.
La ricchissima discografia bandcamp di Jim O’Rourke, quindi, si arricchisce di nuovi capitoli e se siete a conoscenza solo dei suoi - bellissimi - “dischi pop”, potreste fare un giro anche nella serie Steamroom che è una specie di diario di bordo ambient della sua vita in Giappone (se invece non conoscete neanche i suoi dischi pop, non so come cazzo avete fatto a vivere fino a oggi).
Degli album usciti ieri sono riuscito ad ascoltare - un paio di volte - solo il nuovo disco di John Cale. “MERCY”. Destinato a far parlare tanto perché si tratta del suo primo album da un decennio a questa parte, e pure perché il leggendario fondatore dei Velvet Underground a ‘sto giro a messo insieme un nucleo di musicisti di - più o meno - nuova generazione, dando vita a un lavoro in cui la sua scrittura acquista sfumature nuove grazie al trattamento di gente come Laurel Halo, Actress, gli Animal Collective, Sylvan Esso, Weyes Blood e tanti altri. Molto bello.
E pure molto lungo. Ma davvero viva John Cale.
Sto preparando il quarto episodio di Hex Enduction Hour, lo show tutto musicale che realizzo più o meno una volta al mese per Radio Raheeem.
Al link trovate i primi tre episodi, sono dei viaggioni sonori di cui probabilmente capisco solo io il senso, ma mi diverto davvero molto a farli.
Ah, a proposito: quando questa newsletter era in pausa, ho realizzato un mixato lungo 1 ora e 35 minuti per Ivreatronic.
Se siete curiosi lo trovate qui:
Alla prossima!