Il mio amico W. era bello. Bellissimo.
Il più bello di tutti. E lo è ancora adesso che è un uomo fatto e finito, nel mezzo del cammin della sua vita e non ci si vede da un sacco di tempo.
W. era talmente bello che lo chiamavamo “Duca Bianco”, tanto era uguale a David Bowie per stile, portamento e pure proprio perché gli somigliava davvero.
Piaceva a tutti, uomini e donne, gay, lesbiche, etero. Tutti. Tuttu. Tutt* (scrivetelo come cazzo vi pare). Averlo conosciuto mi ha aiutato a comprendere quanto fosse piccola la grandissima metropoli in cui vivo. Perché W. era un connettore di mondi pazzesco: ogni volta che ti imbattevi in qualche nuova persona era molto probabile che lui la conoscesse già o che ci fosse andato a letto.
Questo, ovviamente, succedeva soprattutto con i maschi: il conduttore televisivo famoso che si dava arie da conservatore cattolico? W. lo conosceva. E ci scopava.
Ma tipo da anni eh, mica una volta sola. L’attore lanciatissimo che voleva fare lo scrittore? Check. La tizia che avevi conosciuto per caso all’università e con cui volevi uscire? Era di certo una sua “amica” di vecchia data…
W non era però solo bello, era pure un po’ rincoglionito. Quel rincoglionito buono che lo rendeva una sorta di Mr.Magoo super sexy e intelligente.
Capiamoci, non lo sto insultando. Non lo farei mai. Forse ho sbagliato termine e avrei dovuto scrivere svagato, svampito, su un altro pianeta. Ma non rincoglionito.
W. non è un rincoglionito, ma è il tipo che se passa tre volte di fila con l’automobile davanti a un portone, ti dice tutte e tre le volte il nome di chi abita lì e ogni volta te lo dice come se ti sta per fare una grande rivelazione e non te l’avesse già detto giusto tre minuti prima. W. è anche quello che quasi alla fine di una estenuante maratona dedicata alla visione integrale della saga del Signore degli anelli in versione directors cut - roba che avrebbe piagato chiunque, bisogna dirlo - pronunciò l’immortale frase:
"Ma… alla fine… chi è che doveva rubare che cosa a chi?”
Per tutto il tempo in cui l’ho frequentato non ha mai pronunciato correttamente il nome di Bobby Gillespie. Per lui era Bobby Gillepsie. E spero sia ancora così.
Non so perché alla fine abbiamo smesso di sentirci e vederci, non abbiamo mai litigato, non abbiamo alcun problema, ma la vita a volte ti allontana e ti porta via.
Lui è tornato nelle regione del nord Italia da cui proveniva per fare il lavoro che aveva sempre voluto fare, io sono rimasto qui a fare il lavoro che sognavo di fare ma che non credevo sarebbe mai stato possibile. E alla fine eccoci qui, lontani e quasi sconosciuti, legati solo da qualche connessione Internet e dai social network.
Ma le persone che conosci a vent’anni, capita che te le porti dentro per sempre.
Che facciano parte di te come un ricordo da cui non ti stacchi mai.
Qualsiasi cosa succeda. Anche la più discutibile
Un po’ di tempo fa, W l’ho ritrovato a sorpresa sulle pagine dei giornali.
Le pagine peggiori dove puoi rischiare di trovare una persona che conosci.
Era accusato di avere provato a fare un gesto terribile.
La cosa peggiore che una persona può fare a un’altra persona.
Come tutti, ovviamente, sono rimasto basito, sconvolto, e ho trovato conforto in altri amici - alcuni molto più legati a W. e aggiornati di me sulla situazione - che mi hanno subito riportato sulla terra raccontandomi una verità che sui giornali non veniva scritta e che - speravano - prima o poi sarebbe venuta fuori.
Adesso perdonatemi se faccio un salto in avanti, un flash-forward di quelli che vedi solo nei film peggiori o in quelli di Christopher Nolan. I film peggiori di Christopher Nolan.
Comunque W. sta bene. Libero, pulito, scagionato da ogni accusa.
Era legittima difesa.
Ma quello di cui volevo parlarvi non è la cosa in cui si era infilato lui, quello che gli era capitato, ma quello che succede nella testa delle persone - le altre persone - quando trovano il nome e il cognome di qualcuno che conoscono gettato nel mare delle righe in cronaca. W. non era un mostro, anzi è l’esatto contrario del mostro, è Mr. Magoo nel corpo di Ziggy Stardust, figuriamoci se può far paura a qualcuno.
Eppure è stato descritto in questo modo, e ho visto e sentito alcune persone che lo hanno conosciuto, frequentato, che hanno fatto serata con lui, che ci sono andate a ballare o al ristorante o in vacanza, mutare opinione anche senza credere per forza a tutto quello che veniva scritto. Ho visto il dubbio farsi strada, le sicurezze vacillare, ascoltato discussioni che cominciavano con “È uno ok, ma però…” e i però diventavano sempre più grandi. Enormi. Difficili da scavalcare.
Tutto questo mi è tornato su mentre continuo a leggere “La città dei vivi” di Nicola Lagioia. In una delle prime pagine, non proprio le primissime, ma neanche troppo avanti, viene postulata la teoria che all’interno di un determinato gruppo di persone - quelli appartenenti, se così si può dire, agli ambiti più vari della Roma “culturale” - i gradi di separazione da Marco Prato, contati in amici in comune su Facebook, siano pochissimi. Un gioco che chiunque bazzichi questa città può fare in ogni momento - il profilo è ancora attivo - e che in qualche modo spiega alla perfezione come la vicinanza del male sia sempre un po’ di più del percepito.
E così mi sono ritrovato a pensare che anche quegli amici di quella persona lì, probabilmente, per un momento hanno sperato che venisse fuori una verità meno pesante della realtà, in modo da non vedersi devastare i ricordi, le certezze e tutte quelle cose a cui ci aggrappiamo quando siamo in difficoltà.
Tutte sensazioni che tornano a essere di stretta attualità in un momento come questo, dopo otto mesi di lontananza emotiva e fisica forzata, con i media che possono fare e disfare il nostro stato d’animo decidendo di volta in volta se vogliono cavalcare le onde della paura o quelle della rassicurazione. Ho pensato che in questo momento siamo tutti come W. in quel periodo turbolento della sua vita. Eternamente sospesi (cit.) tra la nostra verità e quello che ci succede nel mezzo.
L’altra sera ho guardato con molta soddisfazione la puntata di “33giri Italiana Masters” dedicata a Tabula Rasa Elettrificata (per gli amici: “T.R.E.”) dei C.S.I.
Dovreste trovarla sul sito di Sky Arte disponibile per tutti, ma non ci metto le mani sul fuoco. I C.S.I, forse l’ho già scritto, sono stati una delle cose che ho più ascoltato nel corso della prima fase della pandemia. Non so bene perché, ma è andata così.
È come se dopo anni avessi fatto pace con la figura di Giovanni Lindo Ferretti accettando che ciò che è adesso non cambia per niente ciò che è stato e quello che ha significato. Alla sua conversione al mondo dell’ultra-destra (quella religiosa, sinceramente, non mi interessa e non credo sia passibile di discussione) dedicai dei post in un blog che avevo nei primi 2000. Un paio dei quali, erano altri tempi, finirono citati anche da quotidiani e generarono un dibattito intorno alla figura di GLF.
Ero stato molto duro all’epoca, e un po’ me ne vergogno.
Non ho cambiato opinione, credo che GLF si sia reso, con colpa, disponibile a farsi strumentalizzare da un mondo politico che aveva e ha ancora bisogno di figure intellettuali spendibili e per questo sia diventato portavoce di idee aberranti (le sue posizioni pro-life, anti-abortiste, filo leghiste anche solo pepprovoca’), ma al tempo stesso continuo ad avere voglia di ascoltarlo dire anche quelle cose con cui non mi trovo mai d’accordo. È strano, lo so. Ma forse crescere è proprio questa cosa qui.
Comunque nel 1997, l’anno in cui “T.R.E” arrivò al primo posto della classifica dei dischi più venduti d’Italia (seguito dopo pochi mesi dal secondo posto posto di “Hai paura del buio?” degli Afterhours), io cominciavo l’ultimo anno di liceo e vidi quella affermazione come un segno di un cambiamento che forse stava iniziando e anche come indicazione di cosa avrei voluto fare da grande. E pure se in quel periodo tutta la comunità che girava intorno a certa musica si strinse e esultò alla notizia del primo posto, cominciarono a spuntare le voci contrarie. Ferretti venne attaccato dalle pagine di una nota rivista musicale, smise di fare interviste, fece tutto il tour nei palazzetti legato a quel disco palesando un senso di colpa nato proprio dall’avere fatto successo e legandosi una corda davanti agli occhi per non vedere in faccia il proprio pubblico durante le due ore dello show. Forse il cambiamento che è iniziato in quel periodo è stato solo il suo. Chissà. Comunque recuperatevi la puntata, merita.
E i dischi dei C.S.I.
Di solito cerco di non parlare per niente delle cose di 42 Records, ma ogni tanto non posso proprio farne a meno. Durante la prima pandemia non ho solo ascoltato i C.S.I, ma ho anche dovuto prendere delle decisioni relative al mio lavoro non facili da prendere (in realtà lo sto facendo ancora adesso). Tra queste, una importante è stata sicuramente quella di non smettere di pubblicare dischi - dopo un primo mese di naturale smarrimento - e andare oltre le ragioni del calcolo. Perché fare uscire un disco nuovo in quel periodo era commercialmente sbagliatissimo, ma in questo caso era la cosa più giusta da fare dal punto di vista morale. Il disco è “Stupide cose di enorme importanza” di Marco Giudici, per brevità chiamato Juju.
Io con gli album che pubblico per la mia etichetta ho un problema: li ascolto tantissimo prima che vengano pubblicati e poi li lascio andare. Ci lavoro, ma non riesco a volerli ascoltare. Succede sempre, così come sempre succede che poi dopo qualche tempo li recupero col distacco che me li fa considerare per quello che sono.
Un disco però continuo ad ascoltarlo come se non fosse uscito per 42 Records.
Non è il solo in realtà, ma è quello che più di tutti mi ha scaldato durante questi mesi strani. È uscito il 17 aprile del 2020. Una data infausta di un anno infausto.
E ora è tornato a essere il disco giusto. Ve lo volevo dire.
Vi volevo anche dire che l’altra sera ho visto “Eden”, un film francese del 2015, che ha sullo sfondo la Parigi del French Touch dagli anni ‘90 fino ad oggi.
È un film triste, semplice, ma secondo me molto bello e che mi ha messo una voglia di ballare che mi si porta via. Lo trovate su Amazon Prime. Cercatelo.
Ah, ho anche fatto la playlist con le canzoni belle di questo novembre strano.
Ve la metto qui sotto.
Il prossimo numero della newsletter sarà il decimo.
Wow, what a journey, direbbe Trump. E quindi potrebbe essere di nuovo il numero in cui mi fate delle domande e io vi dò delle risposte.
Sbizzarritevi. Dai dai.
la mia adorata nonna Flora, terza elementare e grande appassionata di musica lirica (riflettiamo) diceva Inglitterra, che è ben più difficile da pronunciare rispetto a Inghilterra. Diceva anche Eltol Johl (intendendo chi hai capito, sì), ma questa è un'altra storia. Bel pezzo Colas
Una domanda e se vorrai rispondermi anche nella prossima newsletter ti ringrazio.
Ti chiedo perché in Italia se una persona scrive di musica è solo l’ultima, anzi l’ultimissima ruota del carro, di una realtà editoriale e soprattutto perché se ti occupi in generale della sfera culturale di un’azienda non sei davvero considerato uno che sgobba come gli altri.. Io scrivo di musica costantemente lo faccio perché è una passione e mi viene naturale. Sto bene quando lo faccio. Nessuno mi paga eppure continuo a farlo... È logico a volte mi domando perché vado avanti? Mi sembra una sorta di volontariato: sei un collaboratore che si impegna, sei puntuale, scrivi il pezzo che andrà online ma lo fai gratis e lo accetti..allora perché continui a scrivere è per la gloria?. La maggior parte dei collaboratori che scrivono di musica anche online non sono retribuiti o se lo sono si parla di cifre irrisorie. Perché? È davvero frustante.