Dal giorno in cui ho deciso che avrei aperto una newsletter, ho sempre saputo che mi sarei dovuto confrontare anche con questo genere di cose.
Perché sì, insomma, scrivere di musica è una cosa che volendo potrei fare ovunque, ma parlare di cazzi miei no. Quello posso farlo solo qui.
E non c’è niente di meglio di una cosa per pochi, che ti arriva via mail, e che apri solo e se ne hai voglia, per provare a scrivere di argomenti di cui di solito faccio fatica a parlare in pubblico. Per esempio, non ho mai detto a nessuno che all’inizio di luglio ho sfondato la tastiera del computer, la lettera b non funziona più e per scrivere qualsiasi cosa, dove non posso aiutarmi con la touchbar, devo copia-incollarla e poi fare mela+v ogni volta che sono costretto a inserirla in una parola.
Che poi è anche un grande esercizio retorico, perché per evitare la rottura di cazzo del copia-incolla provo a agirare il più possibile le parole che contengono quella lettera.
Io ho un problema con i personal essay perché spesso sono disonesti.
Non tanto per le storie che vengono raccontate, di cui non mi permetterei mai discutere la veridicità (ci mancherebbe pure), ma per l’effetto che generano nei confronti di chi legge. Perché è facile prendere il lettore alla pancia e colpire al cuore raccontando una storia personale straziante, talmente facile che c’è anche chi utilizza questo artificio narrativo per rendersi inattaccabile - “Ma che vita terribile che ha avuto, non trovi?” - e nel frattempo far passare opinioni e idee discutibili e offensive.
Poi, oh, è ovvio che “personale è politico”, lo so pure io, e so anche che alcuni scritti “privati” sono fondamentali per provare a cogliere delle angolature che normalmente non coglieresti e possono aiutare nella formazione di un’opinione o addirittura sciogliere nodi nel vissuto di chi legge.
Insomma, ne sto per scrivere uno anche io, quindi che cazzo vi devo dire?
Che sono un ciccione.
Giuro, un ciccione.
Lo so che non ve ne eravate accorti. Lo riscrivo, C I C C I O N E.
Non sono abituato a utilizzare quella parola, e di certo non mi era mai capitato di scriverla, anche se non è che per me abbia chissà che significato particolare e non è che mi faccia soffrire o altro. Semplicemente è una parola che non uso, come non ne uso altre. Tipo spinterogeno o perno-moncone.
Comunque non sono sempre stato così, anzi. Non sono sempre stato così ciccione.
Diciamo che ho cominciato a “prendere il largo” (madonna quanto vi faccio ridere!) verso la fine delle scuole superiori, ma che almeno fino a una certa età ho avuto una rotondità accettabile e poi le cose sono andate un po’ fuori controllo.
Negli ultimi anni anche parecchio fuori controllo, con tutti i “su e giù” del caso.
Ovviamente ci sono delle ragioni per questo, e non sono proprio le più ovvie.
C’entra sicuramente la vita che faccio, ma pure l’esistenza di un problema di natura medica che provo a gestire non senza una certa difficoltà e di cui non parlerò qui, perché insomma ok i cazzi miei ma manco troppo.
Oh, patti chiari e amicizia lunga: non mi sto lamentando, non cerco pacche sulla schiena e sguardi d’intesa. Come credo tutti, trascorro la mia esistenza in equilibrio sul filo sottile dei giorni in cui mi sento figo, e cerco di non cadere nei giorni in cui invece prenderei a picconate tutti gli specchi di casa.
Però, insomma, credo di essere una persona che sta abbastanza bene dentro il corpo che occupa, che è consapevole di avere un minimo di carisma e ascendente sulle persone, che alle ragazze è sempre piaciucchiato quel tanto che basta per non vivere la vita del sociopatico (questo almeno secondo l’interpretazione della vita che danno gli Incel del cazzo, e che non rispecchia proprio il mio modo di vedere le cose) e che, più o meno, sta a posto come sta e che non ha problemi a prendersi per il culo per primo con le persone con cui ha confidenza.
Purtroppo non è tanto il modo in cui mi guardo io, ma quello in cui mi guardano gli altri. Perché se da un lato sono consapevole di avere acquisito anche una posizione importante e un minimo di potere dal punto di vista lavorativo, so che quando mi confronto con gente che non sa nulla di me, oppure ogni volta che ho dei problemi con qualcuno, o anche solo se sono girato di spalle, la parola che viene fuori è sempre la stessa. Quella di prima.
In pratica sono un ciccione che diventa ciccione solo quando qualcuno ha voglia di offenderlo.
All’inizio della quarentena, in uno di quei giorni di vita sospesa vissuta sul ciglio pericoloso della panificazione, ho ricevuto un messaggio privato da un importante musicista italiano. Una figura di culto assoluto, una specie di mito vivente, con cui nell’ultimo paio d’anni ho avuto dei problemi personali. La cosa divertente - scusate se vado sempre a cercare il lato grottesco delle cose - è che quel messaggio seguiva scambi vecchi di anni in cui tra me e il soggetto di cui sopra c’erano solo parole al miele. E poi all’improvviso: “Sei solo un pallone gonfiato, ciccione”.
Spedito a caso, in un giorno a caso, perché boh forse era giusto così.
Un’altra volta, al profilo di una delle band con cui lavoravo, venne recapitato un messaggio che di punto in bianco diceva: “Voi lavorate col ciccione, no?”
Peccato che il ciccione, cioè io, gestisse proprio quella pagina e rispondesse anche ai messaggi privati. Vabbè, capita, oh.
Un’altra volta ancora, nel backstage del Concerto del Primo Maggio di Roma, un tizio che non avevo mai visto prima, con cui non avevo mai parlato prima, si è rivolto a un musicista di cui sono manager per dirgli di stare attento a non lasciarmi in consegna il piatto del suo pranzo perché altrimenti glielo avrei mangiato tutto.
Così, a caso.
Io normalmente non sono il tipo che reagisce a queste cose, sono quello che se viene urtato da uno sconosciuto sull’autobus chiede scusa anche se la colpa è palesemente dell’altro. È una vita che sono abituato a cercare di occupare il minor spazio possibile perché so che gli altri avranno sempre la percezione di dovermi circumnavigare anche quando non ce n’è assolutamente bisogno. Come quando, e a me succedeva già in epoca pre-covid, incontri qualcuno per strada che accentua il suo lasciarti spazio con ampi gesti di segnalazione come si trattasse di far posteggiare un’orca assassina nel parcheggio dell’IperCoop all’ora di punta del sabato pomeriggio.
Per cui sono fatto così: al ristorante cerco di stare sempre spalle al muro e occhi fissi verso la porta, e nessuno si fa male. Avanti, avanti, circolare.
Comunque, dicevo, io di solito non reagisco.
E invece quella volta lì l’ho fatto, senza pensarci troppo, d’istinto.
”Chi sei? Chi ti conosce? Non mi pare che abbiamo mai magnato insieme, io e te. Sbaglio?” È inutile che io vi dica che un secondo dopo che ho fatto la voce grossa, mi sono comunque ritrovato, IO, a chiedere scusa al tizio perché ero stato un po’ troppo arrogante e: “Lei non sa chi sono io”, e insomma anche no.
Che poi il tizio abbia detto esplicitamente che se avesse saputo chi era la persona con cui stava parlando non avrebbe fatto la battuta è un’altra delle cose che mi ha fatto andare il sangue al cervello. Perché c’è l’idea che certi lussi con le persone grasse siano ammissibili, normali. Ché tanto il ciccione è sempre simpatico, innocuo, e ci ride lui per primo.
E invece no, io non sono simpatico. Per un cazzo.
Io sono uno stronzo, un tagliagole, un assassino, un filibustiere, u’bastasazzu!
Io ti stacco la capoccia. Hai capito?
(Piccola postilla: perché ci confrontiamo continuamente sulle espressioni che non è più giusto utilizzare, mentre sul modo in cui vengono definite le persone grasse non c’è nessuna discussione? Tutte le volte che ho provato a sollevare la questione, mi è stato detto che chi usa termini dispregiativi per le persone in sovrappeso lo fa per il bene di quelle stesse persone, che sono persone malate, e che si teme per la loro salute.
OK, grazie. Ma chi minchia ve lo ha chiesto? E poi in quale cazzo di mondo ci si preoccupa della salute di una persona facendolo sentire una merda? Conoscete davvero qualcuno con cui questa stronzata ha funzionato? Chi è il vostro analista? Kappler?)
Scrivere del mio corpo non è una cosa che mi riesce facile: vengo pur sempre da otto anni di scuola dalle suore (più l’asilo), e appartengo a una generazione che di queste cose non parla proprio facilmente in pubblico. Sono abituato a vivere in difesa e cercare di mostrarmi il meno possibile, tant’è che anche tutta questa attenzione ai corpi non conformi finisce per crearmi imbarazzo. Perché è fighissimo che si parli di fisicità diverse da quelle standard, stupendo che vengano mostrate, ma al tempo stesso è come se ci fosse uno stigma al contrario per tutti quelli che ancora quel coraggio lì non l’hanno trovato. E lo so pure io che non è così, che nessuno chiede e si aspetta niente, che ognuno è chiamato a fare quello che si sente quando si sente di farlo e che se l’Instagram way to problem solving non ti appartiene si può anche vivere senza.
Eppure io questa strana pressione l’avverto.
OK, visto che questo è il luogo dove dico le cose che normalmente non dico, vi racconto brevemente un fatto: all’inizio dell’anno ho subito un piccolo intervento per un’infezione alle vie respiratorie e non ho avuto un post-operatorio facile.
Il post-operatorio nel 2020 del Covid.
Com’è come non è, mi sono ritrovato coperto di macchie orribili e visibili anche dai satelliti di Elon Musk, macchie per cui sono ancora in cura e non è mica facilissimo. Tipo che io fino a metà luglio mi vergognavo di farmi vedere a maniche corte e solo adesso comincio a mostrarmi un po’ di più e non andare in ipertermia.
Ecco, io in questi mesi ho pensato tante volte a fotografarmi conciato come La Pimpa e dire “Oh, il mio corpo è messo così adesso, ma io sono orgoglioso e ve lo faccio vedere, peraltro mio padre si chiama pure Armando, proprio come il padre della Pimpa. Pensa te a volte le coincidenze!” E invece niente, non ce la faccio.
Ma mi pongo il problema: sto sbagliando qualcosa? Sono una persona sbagliata?
Non lo so, ve lo chiedo. Ditemelo.
Oppure forse “mostrarmi” è proprio quello che sto facendo anche io, in questo momento preciso, anche se solo con la scrittura?
Ieri era il 7 agosto.
Il 7 agosto un anno dopo il 7 agosto del 2019.
E io il 7 agosto del 2019 me lo ricordo benissimo.
Ero a Tramonti di Sotto, un paesino delle Dolomiti friulane dove tutti quelli che ci vivono, e sono pochissimi, sono quasi tutti mezzi parenti tra di loro, oppure sardi che sono partiti dall’isola per andare a fare i pastori al Nord.
Comunque io amo Tramonti di Sotto, perché è un posto stupendo, ma pure perché internet lì quasi non esiste e se c’è un poco di pioggia per esempio è impossibile riuscire a collegarsi. Quindi andarci vuol dire staccare davvero dalla vita lavorativa, anche se poi finisci che quando sei lì hai la sensazione di perderti qualcosa di importante. Tant’è che mi ricordo ancora la volta che un rapper famoso aveva uscito il cazzo su Instagram e la fatica che ho fatto per aprire quel videino fondamentale, ma lasciamo stare.
Il 7 agosto del 2019, circa intorno alle 2 di notte, ero sveglio a vedere un filmaccio in televisione, quando per caso ho preso in mano il telefono e ho scoperto che era connesso in un punto in cui di solito non si connette mai.
L’ho sbloccato, sono andato su Twitter e ho trovato dal nulla un tweet di Stephen Malkmus dei Pavement che annunciava la morte di David Berman.
Ora, ogni volta che parlo di David Berman devo fare sempre i conti con il fatto che quella che per me era una figura fondamentale della musica degli ultimi 25 anni, un vero eroe, culto assoluto, il migliore tra i migliori, per quasi tutto il mondo lì fuori era un completo sconosciuto, o poco più. Io però adesso ho già scritto tantissimo e non voglio annoiarvi a morte raccontandovi l’epopea di David Berman prima coi Silver Jews e poi con Purple Mountains, citarvi i suoi versi più significativi, consigliarvi il suo libro di poesie, spiegarvi perché per me lui sia una specie di Leonard Cohen dell’indie rock americano, uno scrittore vero capace di creare mondi utilizzando pochissime parole, un mago dell’ironia e dell’autoironia usata per parlare di cose pesanti in maniera leggera, un vero crooner di provincia. Il migliore, punto e basta.
Mi limiterò a dire che dal momento in cui ho scoperto la sua musica - essenzialmente leggendo su una rivista la storia di questo poeta pazzo amico dei Pavement che non si era mai esibito dal vivo, non aveva mai concesso un’intervista, ma continuava a sfornare dischi - poi niente è stato più come prima. David Berman è entrato nella mia vita come una sorta di Lou Reed dotato di una scrittura quasi da rapper, piena di immagini, citazioni, rimandi a luoghi geografici precisi che in qualche modo hanno dato vita a una sorta di mappa alternativa degli Stati Uniti d’America. Per cui per celebrarlo ho deciso di regalarvi una piccola guida (in parte già nascosta nei link che vi ho lasciato qui sopra).
Per cui vi consiglio di ascoltare questo podcast del NY Times con Nick Weidenfeld, Amanda Petrusich e Jeff Johnson. Ma anche quest’altro podcast dove David Berman parla del suo ritorno alla musica dopo dieci anni di pausa (avvenuto esattamente un mese prima del suo suicidio) e vi segnalo questo libro bootleg messo insieme dai fan e che raccoglie alcuni dei suoi scritti più recenti e che viene passato di persona in persona come il testimone di una staffetta olimpica.
Poi, per non farmi mancare nulla, ho preparato una playlist sempre segreta (come il podcast della prima puntata che ho sbagliato a linkare e che nessuno è riuscito ad aprire e che volendo recuperate qui) tutta dedicata alla musica di David Berman.
Eccola:
Ok, lo so, a questo giro ho davvero esagerato. Prometto che non sarà sempre così.
Anche l’idea che sia “settimanale” non è per niente scritta nella pietra, per ora è andata in questo modo, poi magari diventerà “ogni morte di Papa”.
Chi lo sa.
Se avete qualcosa da chiedermi, fate pure facendo reply a questa mail.
Oppure lasciate un commento.
Se vi è piaciuta, vi chiederei di non fare share sul post ma inviare a chi volete proprio il link a tutta la newsletter - http://extracolas.substack.com - dicendogli che è fighissima, bellissima, scritta da Dio, e vi fa scopare di più.
OK, scherzo, fate come cazzo vi pare.
Ciao!