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Can I hug you? (Quella volta che ho incontrato uno dei Daft Punk e non gli ho creduto)

extracolas.substack.com

Can I hug you? (Quella volta che ho incontrato uno dei Daft Punk e non gli ho creduto)

Numero speciale, direttamente dal 2013

Emiliano Colasanti
Feb 23, 2021
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Can I hug you? (Quella volta che ho incontrato uno dei Daft Punk e non gli ho creduto)

extracolas.substack.com

Non so se ve l’hanno detto, ma si sono sciolti i Daft Punk.
O almeno così pare.
Non era previsto che oggi inviassi un numero della mia newsletter, ma qualcuno è riuscito a far riemergere da quel cimitero degli elefanti che ci ostiniamo a definire web questa cosa che avevo scritto e pubblicato sul blog che curavo per GQ nel 2013.
Ve la invio perché è divertente.
Sa di giovinezza e amicizia.
E soprattutto sa di quando non avevo ancora trent’anni.
È una storiella, spero vi piaccia.
Poi magari ci risentiamo fra qualche giorno.

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Questa è una storia che per sei anni, quasi sette, ho cercato di non scrivere. Perché una roba così automaticamente ti trasforma in un cazzaro e poco conta avere i testimoni e ricordarsi per filo e per segno luoghi, orari e la situazione in cui i fatti qui narrati sono avvenuti: una cosa così non può succedere. Punto e basta.
Fatto sta che il racconto di quella volta in cui un tale mi ha detto di essere uno dei Daft Punk e io non gli ho creduto, ha tenuto banco in un sacco di cene, per un sacco di tempo. In pratica, è uno dei miei aneddoti preferiti proprio perché fortemente inverosimile. Per anni ho raccontato questa cosa dando per scontato che il tizio in questione, il tizio che diceva di essere uno dei Daft Punk e che poi durante la conversazione ridimensionò il suo ruolo finendo a spacciarsi per un membro della crew, fosse solo un fortunato mitomane. Uno che aveva il pass giusto in tasca, nella serata giusta, e poco più. La parte bella del racconto riguardava noi altri: noi con la mascella a un palmo da terra che prima non ci crediamo, poi pendiamo dalle sue labbra, poi quasi gli ridiamo in faccia.

Oggi però è successa una cosa strana: ho preso Vanity Fair, quello con Renzi in copertina, e dentro ci ho trovato la foto a volto scoperto di uno dei due Daft Punk, colto con la sua ragazza mentre passeggia per Milano con la pizza e due sacchetti della spesa in mano. Sì, chiaro, certo che è senza casco.
Secondo voi i Daft Punk vanno in giro col casco anche quando sono a Milano con la pizza in mano, le buste per la spesa e le loro ragazze? No, appunto.
E così ho visto finalmente bene in faccia quello dei due che non è Thomas Bangalter. Sì, dai, coso, Guy-Manuel de Homem-Christo, uno che aveva già scritto nel nome il suo destino da superstar o testa di cazzo.
So da solo che di sue foto nel corso degli ultimi anni ne sono uscite abbastanza, molte più che dal 1997 al 2007, ma in nessuna di queste ero mai riuscito a vedere per bene il viso. Ogni volta sembrava sempre una persona diversa, un mutaforma, la versione robot di Zelig. Poi, all’improvviso, quando proprio non me l’aspettavo, ecco la rivelazione travestita da fotografia, quella che trovate giusto qualche rigo più su (scatto messo volutamente di traverso proprio per rispetto del ben noto cosplay daftpunkiano).
E così di colpo non ho capito più nulla, perché Guy- Manuel de Homem-Christo, questo Guy-Manuel de Homem-Christo qui, con le sportine, la pizza e la fidanzata, è proprio il tizio che la notte del 14 luglio 2007 – giorno in cui si celebra la “presa della Bastiglia”, tra l’altro – ha chiesto di scattarmi una foto e si è beccato come risposta un no.

Nella mia testa il post concerto dei Daft Punk al Traffic di Torino è una specie di viaggio nel fantastico mondo di Fantasilandia: ricordo che siamo andati a piedi dal Parco del Valentino fino ai Murazzi dove si sarebbe dovuto tenere, e infatti si è tenuto, l’aftershow con il dj set di Apparat. Fu un tragitto lungo e abbastanza avventuroso: ogni personaggio bizzarro che finiva per intralciare il nostro cammino si rivelava essere un amico di Marco, il capo della mia spedizione. Voi Marco non lo conoscete, o forse sì, ma poco importa: camminare con Marco per le strade di una qualsiasi città è come muoversi con una calamita per i pazzi. Pazzi belli, pazzi in senso buono, quel genere di persone che ti colpiscono subito, anche se non è dato capire se in positivo o in negativo. In poche parole, partimmo in tre e arrivammo che eravamo una corte dei miracoli, quando entrare da Giancarlo era ormai praticamente impossibile per chiunque, anche per quelli con i pass al collo.
Fu in quel frangente che scorgemmo Sara, romana come noi, appena trapiantata a Torino e fresca ex proprio di Marco.
Mentre chiacchieravamo dei cazzi nostri venimmo interrotti da un tizio, un tizio non troppo alto, non troppo magro, con i capelli castano-chiari mediamente lunghi e un giubbotto di pelle, che ci chiese, in inglese, la nostra disponibilità a farci scattare una foto. Lo chiese a tutti e due, ma lo fece guardando solo lei, mettendo in pratica quella antica forma di cortesia che alla gentilezza affianca anche una risolutezza senza eguali. Il suo obiettivo era chiarissimo. Il nostro “no” lo fu ancora di più.

Una risposta del genere ti costringe sempre a due scelte: mollare il colpo, oppure insistere.
Tizio X insistette. Insistette un sacco, ci tenne molto a farci sapere di non essere un pazzo maniaco, ma solo un tale, uno come tanti, che girava il mondo e per ricordo si divertiva un sacco a fotografare la gente che incontrava e che trovava interessante. Disse proprio così: “Vi trovo interessanti”, ma lo disse continuando comunque a guardare solo Sara.
E qui provai a fare conversazione, a chiedere il perché di questa sua mania, e com’era cominciata. Mi raccontò di essere francese e di essere sceso a Torino proprio per il concerto:
“Quello dei Daft Punk, voi c’eravate?”.
C’eravamo. Chiaro che c’eravamo e ne avremmo continuato a parlare ancora per parecchio tempo.
“Mi promettete che se vi faccio vedere una cosa non fate gesti inconsulti, non urlate, non attirate l’attenzione o niente del genere?”
“Promesso!”
“Sicuri?”
“Sì, fidati, promesso”.
E così tizio-francese-non-molto-alto-castano-chiaro-coi- capelli-mediamente-lunghi-e-il-giubotto-di-pelle aprì la giacca e tirò fuori un pass. Me lo mostrò come se dovesse raccontarmi il terzo segreto di Fatima e un attimo dopo lo fece sparire.
Alla Silvan. Sim salabim.
Sopra c’era il disegno stilizzato di una piramide. E la scritta Daft Punk. Sotto, la scritta “Artist”. Soprattutto la scritta “Artist”.
Passai i dieci secondi immediatamente successivi a chiedere al tizio se stesse scherzando e se quella fosse una presa per il culo, e mentre lui giurava che era tutto vero io cercavo di catturare lo sguardo di Marco e convincerlo ad avvicinarsi a noi.
“Marco, ora ti dico una cosa, però cazzo stai calmo, non urlare, non fare cose strane, non esagerare, OK? Me lo prometti? Oh Marco guarda che è una cosa seria eh? Lo vedi quel tizio che sta parlando ora con Sara, quel tizio ci ha appena mostrato un pass. Un cazzo di pass artist dei Daft Punk!”
Ricordo come se fosse ieri la faccia di Marco che sbianca, il tempo che si ferma, Marco che si para di fronte al tizio franzoso e di botto esclama: “Can I hug you?”

Ovviamente disse di no. Quel tale che forse era Guy- Manuel de Gesù-Christo disse di no, e tutti ci restammo un po’ male.
Provammo a fare conversazione per qualche altro minuto, ma il vento era girato e lui stesso aveva cambiato atteggiamento.
Ci disse che in realtà ci aveva mentito, che lui non era proprio uno dei Daft Punk, ma solo uno della crew e che, anzi, i due tizi dentro la piramide non erano i veri Daft Punk ma due fake che appaiono in pubblico mentre gli altri due si nascondono al mixer.
Fu qui che pensai di essere stato vittima dell’incarnazione umana della macchina spara-palle di Agassi, uno che forse per i Daft Punk al massimo smontava il palco e che si stava solo giocando le sue carte.
Anche Sara sposò la mia tesi, e mentre il tipo, davvero gentile, ci salutava e si allontanava quasi tirammo un sospiro di sollievo.
Marco no, Marco si fece firmare un autografo.
Lui decise di crederci ancora.
E nonostante non riuscimmo mai a decifrare quel cazzo di sgorbio scritto sul retro di uno degli adesivi di “Alive 2007′′, oggi possiamo dire con certezza che aveva ragione lui. Quello lì era proprio uno dei Daft Punk.

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