Vite che non sono la mia
Di autobiografismo, violenza e altre cose che ora non mi vengono in mente
Scrivere dei cazzi propri non è mai facile, ma non è neanche difficile e tutti, ma proprio tutti, siamo portati a credere di essere interessanti anche quando siamo consapevoli della nostra mediocrità.
Del fatto che facciamo vite normali, da persone normali, ma che noi percepiamo come uniche. Degne di nota. Degne di essere raccontate.
Non credo di conoscere un essere umano che a un certo punto della sua vita non abbia pensato di prendere le proprie storie e farne un romanzo.
I più megalomani addirittura il film. E i ricchi? I ricchi direttamente una serie.
Ci siamo passati tutti. Anche tu e di sicuro io.
Ok, questo dovrebbe essere il punto in cui vi dico che ho cartelle piene di romanzi autobiografici - memoir che sfociano nella non-fiction - iniziati e mai finiti, ma non è vero.
L’ho sempre voluto fare, ma non ho mai pensato davvero di farlo.
Però ho i titoli, quelli sì, di titoli ne ho pensati un casino. D’altronde io sono fatto strano: non riesco a scrivere niente se prima non trovo un titolo che mi convince.
Se c’è il titolo, volo. Se non lo trovo, mi blocco.
Il mio preferito? Al momento è “Volevamo solo pagare l’affitto”, ovvero la storia di quel manipolo di persone che venendo dal niente si è ritrovata al centro della discografia italiana. Non parla tanto di me, ma di quelli intorno a me.
Quelli che si sono inventati un mestiere che non sapevano di saper fare, e tutta una serie di altre cazzate che probabilmente interesserebbero solo ad altri quattro stronzi e, infatti, chi cazzo è che vorrebbe leggerlo?
Un’altra cosa a cui penso spesso è l’incipit.
Come lo attacchi un libro del genere? Da dove cominci?
Riuscirai mai a trovare una cosa più potente di: “Mi chiamo Walter Siti. Come tutti”?
Lo sai già, anche io lo so: no.
In estate ho letto “Sing Backwards and Weep”, l’autobiografia di Mark Lanegan, un libro molto appagante, scritto bene, feroce, dark e anche divertente e che comincia in un modo molto diretto: Lanegan si sveglia una mattina e tutte le azioni che compie sono condizionate da una cosa sola, il momento in cui si farà la prima pera.
Preciso, diretto. Perfetto. E cos’è la scrittura, e l’arte in genere, se non il modo che noi essere umani utilizziamo per illuderci di poter aspirare alla perfezione?
Boh, non lo so. D’altronde sono io che faccio le cazzo di domande qui, ok?
Voi, semmai, rispondete e poi me ne fate altre. Va bene?
In ogni modo, io forse comincerei così:
”Mi chiamo Emiliano Colasanti perché i miei si sono rifiutati di darmi il nome dei miei nonni maschi. Volevano fare i ribelli? Forse, ma non abbastanza.
E infatti il nome del mio nonno paterno me lo sono ritrovato comunque appioppato come secondo.
E non è un nome semplice da portare: mio nonno faceva il camionista e per tutti era Giovanni, ma all’anagrafe si chiamava Rinaldo.
E quindi eccomi qui: Emiliano (virgola) Rinaldo.
Nel posto dove sono cresciuto io, chiamarsi (virgola) Rinaldo vuol dire avere a che fare per tutta la vita con quelli che, credendo di essere simpatici, ti urleranno dietro alludendo al vaso da notte. Il rinale, appunto.
”Rina’! Vieni qua! Dai che mi scappa, rinaaa’. Rinale!”
Ma io mi chiamo Emiliano Colasanti, e ho scoperto di avere come secondo nome Rinaldo solo durante il primo appello del mio primo giorno di scuola elementare.
Il giorno in cui lo hanno scoperto anche tutti i miei trentuno compagni. Purtroppo.
Me lo ricordo bene quel primo giorno di scuola: ero nervoso, ma anche felice, e sentivo una stretta allo stomaco che poi mi avrebbe fatto compagnia in tutti i momenti critici della mia vita. In pratica nello stesso momento, lo stesso giorno, ho scoperto di chiamarmi Rinaldo e di soffrire l’ansia. Non male, per un pivello.
La mia maestra si chiamava Suor Elena, era una donna dolce che provava a essere autoritaria ma che non ci riusciva mai davvero.
Quel giorno Suor Elena ci accolse in classe, ci spiegò come sarebbero state le elementari, ci fece dire le preghiere e ci lasciò giocare. Insomma, niente di traumatico, eppure io continuavo a sentire quella stretta allo stomaco e un presagio imminente di sventura. Intorno a mezzogiorno, a mezz’ora dalla prima campanella della nostra vita, cominciò la processione verso il gabinetto. La prima ad alzare la mano fu Leventina Corsi che in realtà all’anagrafe si chiamava Leondina. Esatto: si chiamava Leondina ma si faceva chiamare Leventina. E non Maria. Leventina.
”Maestra posso andare in bagno?”
”Certo, vai pure!”
E poi toccò a Corrado, a Sara, Simona, Sabrina, Claudio, Marco, Alessia, Ettore, Francesco, Serena… una vera processione.
E più sì alzavano le mani e più Suor Elena si spazientiva.
Io guardavo la scena dal mio banco in terza fila, tutto sulla destra, e pensavo: “Devo andare in bagno, devo andare in bagno, non posso non andare in bagno. DEVO FARLO”. Mi alzo in piedi. Chiamo Suor Elena.
”Suor Elena?”
”Sì?”
”Posso andare in bagno?”
”No, adesso basta! Che è questa cosa che dovete andare tutti in bagno, mettiti a sedere!”
”Ma io devo andare!”
”Ci vai quando suona la campanella”.
E così io resto in piedi, immobile, davanti al mio banco in terza fila tutto a destra e mi lascio andare. Libero. Fluido. Come la pipì calda che scorre lungo la mia coscia e comincia a uscire dai pantaloni.
Suor Elena mi fissa basita. Io mi presento di nuovo: sono Emiliano Colasanti. Rinaldo.
Quello che ha pisciato in classe al primo giorno di scuola.”
Ecco, quando mi chiedono cos’è la scrittura per me io penso sempre alle cose più imbarazzanti che potrei raccontare. Scrivere equivale a vergognarsi, essere sincero in un modo in cui normalmente non riesci a essere, togliere i filtri, le maschere, uscire dai nascondigli. Esporsi. Ma scrivere vuol dire anche ingannare, colorire, tradire.
E voi non saprete mai se quello che ho raccontato poco fa corrisponda alla realtà o si tratti di finzione. Alla fine è solo questione di equilibrio.
Stare in piedi con una gamba sola su un filo teso tra due palazzi.
Ho cominciato da poco a leggere “La città dei vivi” di Nicola Lagioia, il romanzo che prova a raccontare l’omicidio di Luca Varani a opera di Manuel Foffo e Marco Prato.
Ne ho lette poche pagine, ma sono già in quella fase in cui non vorrei fare nient’altro.
Quella vicenda è una delle più oscure della storia recente di Roma. Il libro di Lagioia è interessante e avvincente perché riesce ad andare oltre la cronaca nera e raccontare bene la devastazione umana che popola questa città. Il delitto è un pretesto.
Roma è la vittima ma anche l’assassino.
Lagioia ha lavorato come un giornalista d’inchiesta, raccogliendo testimonianze, studiando, intervistando i familiari della vittima e dei carnefici, ed è riuscito a fare di un’inchiesta letteratura. Per certi versi mi ha ricordato un libro simile negli intenti ma diversissimo nello sviluppo, pubblicato sempre da Einaudi lo scorso anno e dedicato a un caso altrettanto inquietante: “Emanuele nella battaglia” di Daniele Vicari, il regista.
Tre anni prima di Willy Monteiro, di Colleferro e dei fratelli Bianchi, un altro ragazzo era stato ucciso da un branco, senza un movente reale se non un alterco nato in locale, dopo un pestaggio che aveva coinvolto quasi un paese intero. I giornali ne parlarono molto, succhiando tutto quello che potevano succhiare, per poi semplicemente voltare pagina e dimenticare. Quel ragazzo si chiamava Emanuele Morganti e abitava a neanche un chilometro di distanza da dove vivono i miei genitori. Un chilometro di distanza dal posto in cui ho trascorso la mia vita dai sei anni fino ai diciannove.
Lo stesso posto dove mi picchiarono perché giravo con “magliette da comunista” (era una maglietta degli Iron Maiden, se non ricordo male) e dove, quando avevo tredici anni, un ragazzino più piccolo di me mi puntò una pistola vera sotto il naso per rubarmi ventimila lire. Qualche anno dopo, quando io stavo finendo le superiori, lo ritrovarono in un fosso, morto, dopo avere vissuto l’equivalente criminale di sette vite.
Emanuele Morganti lo hanno ucciso a mazzate a pochi passi da dove io andavo a scuola, nella stessa piazza in cui, appena suonata la campanella del liceo classico, mi rifugiavo nell’unico negozio di dischi di quella città.
E anche se la prosa di Vicari non è roboante bravo-bravo-bravo-senza-mani come quella di Lagioia, per me è stato inevitabile venire travolto da quel libro.
Una cosa che Vicari racconta bene è la cultura della noia che conduce alla tragedia.
La vita dei ragazzi di provincia cresciuti come animali in batteria a cui non viene offerta nessuna prospettiva di vita se non quella di una via di fuga raggiunta a colpi di cazzotti nelle piazze dei paesi. I tecchienesi contro gli alatrensi, i praticani e i supinesi, tutti contro il tedio. Emanuele Morganti, Willy Monteiro, Luca Varani sono morti tutti per lo stesso motivo.
Erano le persone sbagliate nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
Vi avevo promesso una playlist aggiornabile con tutte le uscite del venerdì, ma mi sono rotto il cazzo presto. Scusatemi, sono stato pessimo.
In ogni modo, non demordo e ho deciso che farò una serie di playlist mensili della durata di un’ora e che si ascoltano esattamente come si ascoltano i dischi.
Comiciamo da ottobre 2020 e dalla facciazza di Donald Trump.
Spero vi piaccia.
Come al solito grazie per essere arrivati fin qui.
Se non lo avete ancora ascoltato, in attesa della season 2, vi linko la season 1 del mio podcast “Extra”. Si tratta di interviste con protagonisti vari della musica italiana.
Lo trovate qui.
L’ufficio reclami è sempre aperto e sapete già che mi piace ricevere le vostre domande, in attesa di un nuovo numero tutto dedicato alle risposte.
A presto, ciao persone!
Ho deciso di scriverti, fondamentalmente perché a me fa piacere quando qualcuno mi scrive, poi per dirti che io ho mille incipit, ma nessun titolo. Quindi se ci mettiamo insieme siamo già a buon punto (anche se il tuo funziona parecchio ed è pure concluso). Ora sto scaricando il libro di Vicari, che forse lo leggo primo di quello di Lagioia, che manco mi fa impazzire. Ciao, a presto, chissà.