Questa è la newsletter che scrivo per te
Giusto per iniziare con una robetta leggera e poi due o tre cosette sparse
C’è stato un momento della mia vita, quello dei vent’anni, in cui il tempo sembrava venire scandito dall’alternanza perfetta tra un concerto dei Marlene Kuntz e l’altro.
Senza esagerare, ma in quel periodo credo di avere visto di più i Marlene dal vivo che mia madre. Per noi giovani - sob - dell’epoca, quell’ondata di nuove band nate verso la fine degli anni ‘80 e diventate giganti durante la seconda metà dei ‘90, ha segnato il primo passo verso l’emancipazione musicale.
La cosa che scriverò adesso credo di averla detta talmente tante volte che probabilmente vi è già venuta a noia, ma dato che si tratta del primo numero di questa newsletter (che per me è come una mezza specie di circolo del cucito segreto, sappiatelo) credo che mi ripeterò: io appartengo a una generazione che durante tutto il corso degli anni ‘90 non ha mai acceso la televisione.
La sera ascoltavamo la radio. Tutti. E tutti la stessa trasmissione.
Si chiamava Planet Rock, andava in onda sulla Radio Rai, spesso trasmetteva interi concerti dal vivo e si occupava di tutta quella musica che normalmente non è che si trovasse facile.
Planet Rock (qui trovate un archivio di puntate e concerti storici, non so se funziona ancora) è stata come una finestra su un mondo: il portale d’accesso all’universo dell’indie rock internazionale. Pensa al nome di una band a caso della scena indipendente, chiudi gli occhi, conta fino a dieci e sicuro viene fuori un nome che io ho sentito per la prima volta lì e forse tanti altri come me. È in quegli anni, e per certi versi in un universo che era satellite a quello del programma, che comincia a affermarsi una nuova scena musicale tutta italiana che riprendeva le sonorità che stavano caratterizzando quella stagione, anche e soprattutto al di fuori dei nostri confini, e li riproponevano in lingua autoctona. Qui potrei fare un elenco lunghissimo di gruppi e solisti che non farò perché:
a) li conoscete tutti
b) non voglio scadere nel triste gioco del: “Perché hai nominato questo e non quest’altro? E di chi è questo? È mio, è mio è mio (riferimento che capiranno solo i quaranta/cinquantenni, e per cui chiedo scusa in ginocchio a tutti gli altri).
c) Ma perché mettersi a fare un’insieme di nomi quando è molto più divertente pubblicare un elenco puntato senza senso?
Il succo di questo discorso - scusate, ma andrò spesso fuori tema, è una promessa - è che a un certo punto anche noi italiani avevamo le nostre versioni dei Pavement, dei Nirvana e dei Sonic Youth che, a differenza degli originali, scrivevano canzoni nella nostra lingua, avevano poco più della nostra età dell’epoca e per cui, per ovvie ragioni, era più facile provare un senso di appartenenza e condivisione che andava ben oltre il normale.
Durante questa settimana sono usciti un paio di articoli che hanno fatto molto discutere la community della musica (aka noi quattro soliti stronzi) e che partivano praticamente dallo stesso argomento: il primo è un articolo scritto proprio da Cristiano Godano per Rolling Stone (lo trovate qui), a cui si affianca questa intervista con Daniel Ek, il CEO di Spotify, che ha scatenato le ire di centinaia di migliaia di musicisti in giro per il globo a causa di alcune delle sue affermazioni.
In poche parole Il Zio (modo in cui chiamerò Daniel Ek da ora in poi perché mi fa ridere) ha raccontato di come la pandemia stia cambiando per sempre il mondo della musica e del perché, anche a causa dell’incertezza in cui naviga l’industria dei concerti dal vivo, i musicisti dovranno adattarsi a questa nuova realtà pubblicando più musica e più di frequente. Fin qui nulla di nuovo e di stranissimo, se non fosse che questa risposta del Zio è arrivata a una domanda specifica su cosa intende fare Spotify per adeguare le royalties nei confronti di artisti e etichette che sono costretti a dividersi una miseria per ogni singolo play. In pratica, non potendo dire che non ha nessuna intenzione di cambiare una policy che ha concordato con i colossi della musica (i quali guadagnano lo stesso tantissimo dagli streaming, essendo proprietari di cataloghi interminabili), ha cercato di porre l’attenzione sulle scelte artistiche dei musicisti accusandoli in qualche modo di prendersi il lusso di pause troppo lunghe.
La verità è che il sistema di cui parla Daniel Ek è già in atto da tempo, ed è il sistema su cui poggia tutto il successo di Spotify: sono anni, cioè da quando quella piattaforma è diventata il punto focale del mercato musicale, che agli artisti non è praticamente più concesso di essere inattivi, e lo dimostrano la quantità sterminata di singoli inediti non inclusi in album appena usciti, e anche delle mille rimasticature di titoli già editi che hanno proprio lo scopo di bombardare l’ascoltatore di novità vere o presunte.
Il punto, però, è che se c’è una cosa positiva, una sola, che questa pandemia ha portato al mercato musicale è proprio la rinata consapevolezza che un altro modo è possibile. Perché boicottare Spotify non ha senso, ma farne un uso diverso sì.
Non usarlo come centro di tutte le strategie, non basare le campagne di marketing di un disco solo sulle esigenze di quella piattaforma, far tornare Spotify a un posto che viene occupato per esigenze di catalogo e di usabilità, ma che non è sinonimo di musica, di mercato o di promozione. Esistono altre piattaforme, e sono tante e stanno crescendo in tutto il mondo, esistono altri modi, altre idee.
Non tutta la musica che viene prodotta nel mondo è fatta per funzionare bene seguendo le regole di Spotify. Ci sono artisti - e sono tanti e anche importanti e di successo - per cui il meccanismo dei singoli da piazzare nelle playlist non funziona, non è il loro mezzo, e non lo è non solo per la tanto discussa questione generazionale, ma anche per un fatto artistico, per il tipo della musica che fanno e per il genere di pubblico a cui aspirano. Spostare l’asse si può, si deve, e si sta già facendo.
Spotify non è il babau, non è il mostro cattivo, ed è innegabile che abbia avuto un ruolo fondamentale per il superamento della pirateria e la creazione di una nuova industria musicale; ma non è l’unica cosa che esiste, non è “il mercato”, e dobbiamo cominciare a ricordarcelo.
Tutti questi stessi temi sono stati trattati in qualche modo anche da Cristiano Godano nel suo articolo intitolato in maniera roboante: “Lo streaming sta uccidendo il rock, cosa dobbiamo fare?”
Un articolo che mi ha colpito per tutta una serie di ragioni.
La prima riguarda proprio il rock, anzi “il ruock”, e lo streaming individuato come nemico, causa e non mezzo, cosa che rende Godano la versione alternative del giapponese che non accettava la fine del conflitto bellico.
L’altra è una prosa volutamente ostica, che cerca di essere “alta”, ma che nel farlo fallisce nell’obiettivo di essere chiara e di comunicare con il suo pubblico.
Per non parlare poi dell’acredine che attraversa tutto il pezzo, e che si ricongiunge con quello che è da sempre uno dei problemi di Cristiano Godano, vale a dire l’incapacità di accettare le critiche e di vedere tutto sempre come un attacco personale. Per questo voglio sgomberare il campo: non ho niente contro di lui, come scritto sopra sono stato un suo ammiratore e mi ritengo anche professionalmente legato alla sua figura perché si tratta della prima persona che ho intervistato in vita mia. L’inizio della mia luminosa - seh, lallero - carriera nel giornalismo musicale italiano.
Ancora mi ricordo che alla domanda, tocca ammettere banale e stupida, su cosa stesse ascoltando in quel periodo rispose che l’unica musica che si sentiva in casa sua era il suono delle sirene che proveniva dai TG, durante i bombardamenti che in quei giorni del 1999 stavano martoriando il Kosovo. Anni dopo mi è capitato di rivangare questo episodio con lui che, dopo averla presa a ridere, mi disse: “Ma veramente? Madonna ero proprio un coglione in quel periodo!”.
Tutto questo per chiarire che Cristiano Godano mi è pure simpatico, ma è innegabile che abbia una sorta di ossessione per gli hater che manifesta in svariati modi fin dai suoi esordi. In uno dei primi demo dei Marlene, per esempio, c’era una canzone che diceva letteralmente: “Ehi critichino ma fammi un bocchino”. Quella stessa canzone, edulcorata, è diventata poi l’apertura del primo album di quella stessa band che anni dopo, sempre come opening track di un altro disco (questa volta del 2010) aveva addirittura dedicato una canzone agli utenti dei forum che non avevano gradito le ultime produzioni del gruppo (giuro, lo ha fatto davvero). Anche in questo suo articolo non riesce a non togliersi dei sassolini dalle scarpe che Costume National gli regala nei confronti di quei fan dei Marlene che non hanno perdonato al gruppo il passaggio sanremese, mettendoli poi a confronto col pubblico di Zen Circus e Motta, che invece avrebbe sostenuto quegli stessi artisti “fino alla vittoria”. Peccato però che ometta che all’epoca nessuno s’indignò per il passaggio all’Ariston dei Marlene Kuntz, mentre si discusse molto di una lettera che loro scrissero ai loro fan per annunciare la partecipazione al festival in cui essenzialmente mettevano le mani avanti in un modo rocambolesco, finendo per creare una polemica che in realtà non era mai partita. Il tutto arricchito da un’intervista post kermesse in cui, a valle di un’esibizione non proprio memorabile, accusavano di nuovo i fan per averli abbandonati dicendo senza mezza termini che stampa e fan avrebbero dovuti ringraziarli quanto meno per avere fatto salire Patti Smith sul palco di Sanremo (non commento, ma insomma…)
Da qualche anno, il nemico giurato di Cristiano Godano è proprio L’Internet (con la L maiuscola che mettono i giovini su Facebook), ritenuto causa di divisioni sociali come, appunto, teorizza nel pezzo scritto proprio per Rolling. Uno spunto che sarebbe anche interessante se non portasse poi a una reductio ad Godanum di tutto quello che è nuovo, diverso e distante dalla sua visione, che culmina con un’affermazione incredibile sul fatto che, se fossero stati inglesi o americani, i Marlene sarebbero stati PJ Harvey. Non i Silversun Pickups, gli Snow Patrol o, che ne so, i Black Keys, cioè tutti artisti internazionali di medio/grande successo e che normalmente sono nelle line up di festival importanti e godono di un pubblico ampio nonostante non siano proprio nati ieri, ma PJ Harvey cioè una delle artiste più significative, importanti e riconosciute della storia della musica.
E lo so, magari tutto quello che ho scritto fino a questo punto vi sembrerà un attacco gratuito e inutile a Godano, ma giuro che non lo è.
Perché il punto per me non è Godano, ma quello che rappresenta come artista appartenente a una generazione che ha avuto tutto e le ha provate tutte.
I soldi, quando ancora giravano ed erano tanti, le opportunità, i grandi palchi televisivi, MTV quando c’era ancora e spostava, le major, tutto.
Gente che con la scusa di cambiare il sistema dall’interno non si è fatta mancare nulla, ma poi è sempre in prima linea a puntare il dito contro quelli che, venendo dopo di loro, gli hanno fatto traballare la sedia sotto il culo e che sono colpevoli di avere ora le opportunità che i Marlene e altri, in maniera maggiore, hanno avuto prima.
Tant’è che Cristiano ci annuncia che nel prossimo episodio della sua rubrica ci spiegherà la sciagura dei feat e del perché se ne fanno così tanti.
Motivo che conosciamo già, lo stesso identico per cui i Marlene hanno fatto un singolo con Skin venti anni fa.
Se sei arrivato alla fine di questa cosa forse è solo perché mi vuoi bene.
Quindi grazie.
Intanto, visto che sei qui, ti lascio l’ultima puntata - nel senso che è l’ultima uscita e non l’ultima in senso assoluto - del podcast dove intervisto alcuni musicisti.
L’ospite della puntata è Madame e secondo me è venuta fuori una superchiacchierata.
Peccato che abbia voluto eliminare il punto in cui mi ha detto che per lei fare musica è un bisogno fisico, come fare la cacca.
La trovate qui.
Qui invece trovate una trasmissioncina radio di me che passo della musica figa e dico delle cose e che potete trovare solo dentro questa newsletter.
Cioè se siete arrivati fino in fondo e ora cliccate qui potete scaricarla e ascoltarla. Altrimenti no.
Resta una cosa tra me e voi. È un test, quindi fatemi sapere se devo continuare o meno.
Ciao ciao.
Continua, tvb!
Mattia Cuttini