Ciao persone,
Benvenuti al numero 10 della newsletter col più alto tasso di depressione dell’intero web. Piccolo disclaimer per te che forse ti accingerai a leggere qui sotto: vi avevo promesso un numero speciale con le risposte alle vostre domande, e pur avendone raccolte un po’ nei giorni passati devo ammettere che sono davvero troppo poche per solleticare il mio ego. Talmente poche che il mio ego mi ha anche consigliato di soprassedere e fare finta di nulla, ma questa è la newsletter della trasparenza e dell’onestà e così, mentre mi immaginate nei pressi di un parlamento immaginario a gridare: “Rodotà! Rodotà!” come avrebbe fatto un grillino nel 2013, mi sento costretto a dirvi che possiamo considerare quell’esperimento come ufficialmente fallito.
Però a una domanda voglio rispondere lo stesso.
Una domanda complessa e che mi ha fatto Damir (ciao Damir!) e che, a suo modo, è anche perfetta per toccare quello che è l’argomento che più mi ha appassionato nel corso di quest’ultima settimana.
Perché sono un ex ragazzo nato alla fine degli anni ‘70 e, per me, la morte di Diego Armando Maradona è un po’ come se fosse la fine reale dei miei sogni di bambino.
Quando sognavo di guidare un’astronave o di vincere la Coppa de Mondo di calcio.
E Maradona è stato un bambino come me. Lo è stato prima che io nascessi, ma è lo stato anche dopo, anche nei momenti peggiori della sua esistenza di adulto.
Per cui, giuro che poi accanno coi disclaimer, mi rendo conto che non ve ne sbatta l’organo genitale di cui siete detentori o detentrici di leggere l’ennesimo racconto dedicato a Maradona, ma vi assicuro che anche questa volta parlerò di me. Perché, non so se l’avete capito, in realtà tutte le cose di cui parlo in questa newsletter sono un trucco per rendervi partecipi dei cazzi miei. Ok?
"Secondo te perché ci leghiamo così tanto al calcio anche se razionalmente sappiamo tutti che è un po’ una merda, che non c’è nessuna giustificazione logica, che ormai è un circo ostaggio di dinamiche che la musica al confronto è Che Guevara che si organizza per liberare Cuba? Eppure, eccoci lì. Sì, pure tu, lo so bene :-)”
Ecco, bella domanda. Una di quelle che mi faccio da sempre e per cui non riesco a formulare una risposta sensata. Però so che tirare calci a una palla è letteralmente una delle prime cose che ci insegnano a fare appena siamo in grado di stare in piedi.
Spesso ancora prima di camminare, sorretti dai genitori. E anche se non tutte i neonati e le neonate della terra diventeranno appassionati di calcio, a me piace pensare che quell’imprinting lì, quel ricordo di un momento felice che sa di aria aperta, libertà, e divertimento ce lo portiamo dentro per sempre.
Poi, certo, conta come vieni cresciuto, il tipo di confidenza che sviluppi col calcio guardato e con quello giocato, la voglia che hai tu, una volta diventato consapevole, di sviluppare quell’interesse o meno.
Io, per esempio, ho sempre dormito poco e sono sempre stato molto irrequieto. Ma i miei genitori sostengono che niente mi calmasse più di una partita di pallone vista in televisione. All’epoca il calcio in TV non era ovunque come adesso, te lo dovevi andare a cercare, e le partite della Serie A inglese mandate a notte fonda dalle emittenti locali, in ultra-differita, hanno permesso alla mia famiglia di vivere dei sonni leggermente più tranquilli di quelli che avrebbero vissuto senza.
Per questo, se penso alla presenza del calcio nella mia vita penso a una cosa che c’è sempre stata. Da sempre. E nel calcio di cui ho memoria da quando ne ho memoria, c’è sempre stato anche Diego Armando Maradona. Il più forte di tutti.
Io all’inizio Maradona lo odiavo.
A casa mia sono tutti juventini, tranne mia madre, milanista, che aveva avuto per Gianni Rivera una cotta paragonabile a quella di un’adolescente di adesso per i BTS. Maradona quindi era un nemico. Era l’avversario.
Quello peggiore, che non puoi non ammirare ma che temi più di ogni altro.
E a me piaceva un casino Platini. Tant’è che la notte in cui lo vidi fare a pezzi l’Italia insieme a Tigana e Rochetau, negli ottavi di finale di Mexico ‘86, decisi che avrei scritto un romanzo su di lui. Ma non che lo avrei fatto in futuro, ma proprio quella sera lì. Per cui presi un quadernino vuoto e cominciai a scrivere e scrivere e scrivere.
Cosa che feci per tutta l’estate, andando ovviamente fuori tema e trasformando il mio romanzo su Platini in un resoconto di quei campionati del mondo.
D’altronde, tra quella partita contro l’Italia e la finale era successo di tutto.
Ma soprattutto era successo Maradona. Ed era successa la fantasia.
Le fasi finali di quei Mondiali li vidi a casa di mia nonna, dove venni spedito insieme a mia sorella. Avevo sette anni e il permesso di fare tardi solo per poter guardare le partite. Che quello del 1986 in Messico sia stato il Mondiale in cui Diego Maradona ha concluso il suo ciclo da essere umano ed è assurto a divinità non c’è bisogno che ve lo dica io. La partita contro l’Inghilterra, il goal di mano ma soprattutto l’altro sono diventati a loro modo un genere letterario. Furono i due goal contro il Belgio a farmi definitivamente capitolare. Ricordo che telefonai a casa per commentarli con mio padre e, ovviamente, in finale avrei tifato per l’Argentina.
Perché tra le varie cose che mi hanno insegnato, ce n’è una che non va messa mai in discussione: può succedere di tutto, ma se c’è in campo la Germania si tifa sempre per la squadra che le gioca contro. Sempre.
In quegli anni ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare, e parecchie di quelle cose le ho viste fare da Maradona.
E ho continuato a odiarlo pur amandolo fortissimo.
Perché con Maradona non poteva che andare così: perfino i tifosi del Napoli, a un certo punto, non lo sopportavano più. Quando non tornava dai ritiri, per esempio, e cominciava a litigare con Ferlaino a mezzo stampa perché voleva essere ceduto, e pure quando lo hanno arrestato e squalificato per doping.
L’inizio di una fine che pareva inarrestabile e che invece è durata per circa trent’anni.
Perché Maradona non è morto qualche giorno fa. Maradona si è consumato davanti ai nostri occhi. È stato abbattuto ed è franato come un palazzo a cui hanno messo la dinamite sotto le fondamenta, ma il crollo è avvenuto in maniera lentissima.
Come se si trattasse di un lunghissimo ed eterno filmato in slow motion.
Tant’è che mentre aspettavamo di avvertire lo schianto ci siamo quasi dimenticati di lui, ed è per questo che poi il botto ha risuonato ancora più enorme e fragoroso.
Eppure, anche nei momenti peggiori, anche nei disastri, non è mai stato uno normale.
Fuoriclasse in tutto, anche nelle cadute di stile.
Il miglior nemico di se stesso.
Io non riesco a considerarlo neanche controverso, Maradona.
Per me è stato davvero un libro aperto.
È un po’ come quei mix dove hai tutti gli strumenti sparati in faccia, e anche se vieni travolto dall’onda riesci comunque a distinguere ogni singolo suono.
Non si è mai protetto come di solito i personaggi pubblici si proteggono.
Non è mai esistito un Diego Armando privato, e questa è la ragione per cui la gente lo ha amato così tanto; ma pure il motivo che lo ha portato a sviluppare un’attrazione pericolosa per la distruzione del sé.
Perché probabilmente Diego normale non lo è mai stato.
Non lo era quando da ragazzino palleggiava e dichiarava di sognare di vincere un Mondiale, e non lo è stato di sicuro dopo, quando il personaggio ha preso in via definitiva il sopravvento sulla persona.
Maradonna, di fatto, era un uomo solo circondato da una moltitudine.
Uno che ha donato pezzi di sé a talmente tanta gente che non ne era rimasto più niente. Un essere umano fragile, che si è trovato a dovere rappresentare più popoli contemporaneamente anche quando forse non avrebbe voluto rappresentare neanche se stesso. Ha lottato, ogni tanto ha vinto, parecchie volte ha perso.
E quando ha perso lo ha fatto spesso male, dando il peggio, raschiando il fondo, ma pagando sempre tutto sulla sua stessa pelle.
In questi giorni, come tutti, ho letto anche io le polemiche di chi ha tenuto a separare il calciatore dall’essere umano, l’uomo pubblico da quello privato, e ammetto di avere spesso provato un grave imbarazzo, proprio perché io quei distinguo non riesco a farli e non riesco a venire a patti con questa idea nuova di società in cui tutto quello che non è “puro” si merita una condanna in nome di una virtuosità più esibita che reale.
Poco meno di un anno fa, nei giorni della scomparsa di Kobe Bryant, rimasi colpito da come si parlò poco e niente dell’accusa di stupro che l’aveva coinvolto e per cui era stato ritenuto innocente. Quell’episodio è stato centrale nella sua carriera di essere umano e atleta, eppure è finito sotto il tappeto. Oscurato dai media, tanto occupati dal dipingere il ritratto di un uomo senza macchia da dimenticarsi che lo stesso Kobe, negli anni, era tornato su quella vicenda cruciale senza nascondere che nonostante fosse sempre convinto della natura consensuale di quel rapporto, durante il processo aveva capito che per la sua controparte non era stata evidentemente la stessa cosa e ne aveva riconosciuto le ragioni. Gli sbagli, anche quelli gravissimi e imperdonabili, fanno parte del racconto dell’esistenza. Parlare di Maradona facendo finta che il peggio non sia mai accaduto non è solo sbagliato, è anche impossibile.
Maradona è stato Maradona anche nei difetti, non ha mai nascosto la propria fragilità, non ha mai voluto mostrarsi come l’uomo perfetto. L’esempio da seguire. Quello da invidiare. Era un ribelle, e lo era anche e forse soprattutto nei confronti di quello che gli altri avrebbero voluto che rappresentasse.
In “The Last Dance”, la docu-serie dedicata a Michael Jordan e prodotta da HBO e Netflix, si vede chiaramente la parabola di un campione che per diventare icona globale sacrifica se stesso, i suoi affetti, la vita fuori dal campo da basket. Uno che ha davvero messo la competizione davanti a tutto.
Prima dell’amore, dei figli, della famiglia e anche di un’esistenza più o meno felice.
In una scena compare sdraiato sul divano mentre racconta di non poter avere una vita fuori dalla porta della sua casa o dalla stanza dell’albergo in cui sta alloggiando prima di una partita in trasferta. La stessa cosa emerge prepotente in “Mi chiamo Francesco Totti”, uno talmente innamorato della sua città che non ha mai voluto andare a giocare altrove ma che al tempo stesso quella città ha smesso di poterla vivere davvero quando era un bambino e forse non può farlo neanche adesso che ha smesso di giocare.
Maradona invece ha fatto il contrario, si è ubriacato di vita. Ha corso veloce dentro e fuori dal campo, non ha rinunciato a niente, non si è risparmiato niente.
Circondato da tutti, amico di pochissimi, sfruttato da tanti, non ha opposto alcuna resistenza. Spesso è stato indifendibile, condannabile e condannato.
Non si è piegato a un sistema che lo voleva come un quadro da appendere in un museo: ha permesso, invece, che tutti toccassero e strappassero parti della sua tela e se ne portassero un pezzo a casa. Si è dissolto, e lo ha fatto in maniera orribile proprio nel modo in cui aveva sempre vissuto: davanti ai nostri occhi.
Senza nascondere niente. Tutto sotto la luce del sole.
Maradona sembrava felice solo quando era in campo, nonostante le botte, i calci e la fatica. Se dovete ricordarlo, ricordatelo così: con i difensori incollati come francobolli e la palla che sembra avere un rapporto di amore esclusivo con i suoi piedi.
Magari ogni tanto sbagliava, ma non gliela portavano mai via.
Mai.
Per cui, Damir, io forse lo so qual è la cosa che ci tiene attaccati a questo calcio che è l’esatto opposto di quello che abbiamo imparato ad amare, e di cui alla fine non riusciamo a fare a meno, anche se più passa il tempo e più ci sentiamo degli imbecilli: l’idea che possa succedere di nuovo. L’idea che un ragazzino arrivi a giocare ai massimi livelli senza mai smettere di essere quello dei campetti. Senza mai nascondere la parte più infantile e pura di quello che di fatto è sempre stato solo un gioco.
Come la vita.
Ho cominciato a scrivere quello che avete appena letto immediatamente dopo la morte di Maradona. Morte che mi è stata comunicata in una riunione via zoom e da quel momento non ho capito più niente.
Mentre scrivevo mi sono rifiutato di leggere l’articolo che Jorge Valdano ha scritto per il Guardian. E meno male, perché se lo avessi fatto non avrei più scritto niente.
È davvero perfetto, lo trovate qui.
Se non lo avete fatto ascoltate anche l’ultima puntata de La Riserva, che oltre essere dei - ehm - bro, sono anche il miglior podcast italiano di calcio.
Eccola:
Ovviamente da affiancare allo speciale de L’ultimo uomo.
E vi consiglio anche di dare un’occhiata anche al Fantasista, magazine made in UK dedicato proprio al numero 10 come concetto esistenziale e non sono calcistico.
Ci trovate anche una monografia di Roberto Baggio. No, non è un miraggio.
Se non ne avete abbastanza guardatevi pure tutte le interviste che Maradona ha rilasciato a Gianni Minà. Le trovate tutte su YouTube.
Come sempre, grazie se siete arrivati fin qui.
Per concludere vi regalo un croccantissimo mixtape realizzato da Little Tony Negri aka David Nerattini pieno di rare perle italo-funk e non solo.
Pompatelo a volume alto! E magari recuperate quella volta che, durante il primo lockdown, David e io ci siamo messi a raccontare il nostro amore per i Beastie Boys.